Se l’intolleranza sia stata insegnata da Gesù Cristo
Vediamo adesso se Gesù Cristo abbia stabilito delle leggi sanguinarie, se abbia ordinato l’intolleranza, se abbia fatto costruire le prigioni dell’Inquisizione, se abbia istituito i boia degli autodafé.
Se non mi sbaglio, non ci sono che pochi brani nei Vangeli da cui lo spirito persecutorio abbia potuto dedurre che l’intolleranza e la costrizione sono legittime. Uno è la parabola in cui il regno dei cieli è paragonato ad un re che invita dei convitati alle nozze di suo figlio; questo monarca fa dire loro dai suoi servitori[63]: “Ho ucciso i miei buoi e il mio pollame; tutto è pronto, venite alle nozze”. Gli uni, senza curarsi dell’invito, vanno alle loro case di campagna, gli altri ai loro affari; altri oltraggiano i domestici del re e li uccidono. Il re fa marciare i suoi eserciti contro questi assassini e distrugge la loro città; manda persone per le strade a invitare al banchetto tutti quelli che incontrano: uno di questi, sedutosi a tavola senza aver indossato l’abito nuziale, è messo in catene e gettato nelle tenebre di fuori.
È evidente che, poiché questa allegoria non si riferisce che al regno dei cieli, nessun uomo deve dedurne il diritto di incatenare o mettere in prigione il suo vicino che sia venuto a cena da lui senza un abito nuziale decente, e non conosco alcun principe nella storia che abbia fatto impiccare un cortigiano per un motivo simile; nemmeno c’è da temere che quando l’imperatore, una volta ucciso il pollame, invierà i suoi paggi ai principi dell’impero per invitarli a cena, questi principi uccidano i paggi. L’invito al banchetto simboleggia la predicazione della salvezza; l’assassinio dei messi del principe rappresenta la persecuzione contro coloro che predicano la saggezza e la virtù
L’altra parabola[64] è quella di un uomo che invita i suoi amici a una grande cena e, quando sta per mettersi a tavola, invia i suoi domestici ad avvertirli. L’uno si scusa perché deve andare a visitare un campo che ha comprato: questa scusa non sembra valida, perché non si va a vedere un terreno di notte; un altro dice che ha comprato cinque paia di buoi che che li deve provare: ha lo stesso torto dell’altro, perché non si provano i buoi all’ora di cena; un terzo risponde che si è appena sposato, e certamente la sua scusa è accettabilissima. Il padre di famiglia, adirato, fa venire al banchetto i ciechi e gli storpi, e vedendo che rimangono ancora dei posti liberi, dice al suo servo: “Va’ per le strade e lungo le siepi e costringi la gente a entrare”.
È vero che non è detto espressamente che questa parabola sia una metafora del regno dei cieli. Si è fin troppo abusato di queste parole: “costringili ad entrare”; ma è evidente che un solo servo non può costringere con la forza tutti quelli che incontra a venire a cena dal suo padrone; d’altra parte, dei commensali costretti in questo modo non renderebbero il pasto molto piacevole. Secondo i commentatori più accreditati, ‘costringili ad entrare’ non vuol dire altro che: pregate, scongiurate, insistete, ottenete. Che rapporto c’è, vi domando, tra questa preghiera e questa cena e la persecuzione?
Se si prendono le cose alla lettera, bisognerà essere cieco, storpio e condotto con la forza, per essere nel seno della Chiesa? Nella stessa parabola, Gesù dice: “Non invitate a pranzo né i vostri amici né i vostri parenti ricchi”; se ne è mai dedotto che non si deve effettivamente pranzare con i propri parenti e amici se hanno un po’ di ricchezza?
Gesù Cristo, dopo la parabola del festino, dice[65]: “Se qualcuno viene a me e non odia il padre, la madre, i fratelli, le sorelle, e perfino la sua stessa anima, non può essere mio discepolo, ecc. Perché, tra voi, chi è colui che, volendo costruire una torre, non calcola prima la spesa?” C’è forse qualcuno al mondo tanto snaturato da trarre la conclusione che bisogna odiare il proprio padre e la propria madre? E non si comprende facilmente che queste parole significano: “Non tentennate tra me e i vostri affetti più cari”?
Si cita il brano di San Matteo[66]: “Chi non ascolta la Chiesa sia come un pagano e un pubblicano”; ciò non significa assolutamente che si devono perseguitare i pagani e gli esattori delle tasse: vengono maledetti, è vero, ma non vengono consegnati al braccio secolare. Lungi dal privare questi esattori di qualcuna delle prerogative del cittadino, a loro sono stati dati i più grandi privilegi; è l’unica professione che sia condannata nella Scrittura ed è la più favorita dai governi. Perché, dunque, per nostri fratelli che sbagliano non dovremmo avere altrettanta indulgenza quanta è la considerazione che prodighiamo ai nostri fratelli che appaltano le imposte?
Un altro brano di cui si è abusato in maniera grossolana è quello di San Matteo e di San Marco, dove è scritto che Gesù, una mattina, avendo fame, si avvicinò a un fico ma vi trovò solo foglie, perché non era la stagione per i fichi: egli maledì il fico, che si seccò all’istante.
Si forniscono molte spiegazioni diverse a questo miracolo; ma ve n’è forse una che possa autorizzare la persecuzione? Un fico non ha potuto fare i fichi ai primi di marzo, è stato rinsecchito: è una buona ragione per rinsecchire nel dolore i nostri fratelli in tutte le stagioni dell’anno? Rispettiamo nella scrittura tutto ciò che può far nascere delle difficoltà nei nostri animi curiosi e vani, ma non abusiamone per essere duri e implacabili.
Lo spirito persecutore, che abusa di tutto, cerca inoltre la sua giustificazione nell’espulsione dei mercanti scacciati dal tempio, e nella legione di demoni mandata dal corpo di un indemoniato nel corpo di duemila animali immondi. Ma chi non vede che questi due esempi non sono altro che un atto di giustizia che Dio si degna di fare lui stesso per una violazione della legge? Trasformare il portico del tempio in una bottega di mercanti era mancare di rispetto alla casa del signore. Invano il sinedrio e i sacerdoti permettevano questo commercio per la comodità dei sacrifici: il Dio a cui si offrivano sacrifici poteva senz’altro, benché celato in sembianze umane, distruggere quella profanazione; poteva ugualmente punire quelli che introducevano nel paese dei branchi interi di animali proibiti da una legge che lui stesso si degnava di osservare. Questi esempi non hanno alcun rapporto con le persecuzioni relative al dogma. Lo spirito di intolleranza deve poggiare su ragioni molto cattive, perché cerca ovunque i pretesti più vani.
Quasi tutto il resto delle parole e delle azioni di Gesù Cristo predicano la dolcezza, la pazienza, l’indulgenza. C’è il padre di famiglia che accoglie il figliol prodigo; c’è l’operaio che arriva all’ultima ora e che viene pagato come gli altri; c’è il samaritano caritatevole; lui stesso giustifica i suoi discepoli che non osservano il digiuno; perdona la peccatrice; si limita a raccomandare la fedeltà alla donna adultera; si degna perfino di acconsentire all’allegria innocente dei convitati di Cana che, già riscaldati dal vino, ne chiedono ancora: vuole volentieri fare un miracolo in loro favore, trasforma per loro l’acqua in vino.
Non si scaglia nemmeno contro Giuda, che deve tradirlo; ordina a Pietro di non usare mai la spada; rimprovera i figli di Zebedeo che, seguendo l’esempio di Elia, volevano far scendere il fuoco dal cielo su una città che non aveva voluto ospitarli.
Infine morì vittima dell’invidia. Se osassimo mettere a confronto il sacro e il profano, e un Dio con un uomo, la sua morte, umanamente parlando, ha molto in comune con quella di Socrate. Il filosofo greco morì a causa dell’odio dei sofisti, dei sacerdoti e dei primi cittadini: il legislatore dei cristiani dovette soccombere all’odio degli scribi, dei farisei e dei sacerdoti. Socrate poteva evitare la morte, ma non volle: Gesù Cristo si offrì di sua volontà. Il filosofo greco non solo perdonò i suoi calunniatori e i suoi giudici iniqui, ma li pregò di trattare i suoi figli come lui, un giorno, se fossero stati abbastanza fortunati da meritare il loro odio come lui: il legislatore dei cristiani, infinitamente superiore, pregò suo padre di perdonare i suoi nemici.
Se Gesù Cristo sembrò temere la morte, se l’angoscia che provò fu così estrema da sudare sangue, che è il sintomo più violento e più raro, è perché si degnò di abbassarsi a tutta la fragilità del corpo umano di cui si era vestito. Il suo corpo tremava e il suo animo era incrollabile; ci insegnava che la vera forza, la vera grandezza, consiste nel sopportare i mali sotto i quali la nostra natura soccombe. C’è un coraggio estremo nel correre incontro alla morte pur temendola.
Socrate aveva trattato i sofisti da ignoranti e li aveva accusati di malafede: Gesù, usando il suo diritto divino, trattò gli scribi[67] e i farisei come ipocriti, folli, ciechi, malvagi, serpenti e razza di vipere.
Socrate non fu affatto accusato di voler fondare una setta nuova: non si accusò affatto Gesù di aver voluto introdurne una[68]. Sta scritto che i sommi sacerdoti e tutto il consiglio cercarono un falso testimone contro Gesù per farlo morire.
Ora, se cercavano un falso testimone, allora non gli rimproveravano di aver predicato pubblicamente contro la legge. Fu infatti fedele alla legge di Mosè dalla sua infanzia fino alla morte. Fu circonciso l’ottavo giorno, come tutti gli altri bambini. Se fu poi battezzato nel Giordano, si trattava di una cerimonia consacrata presso gli ebrei, come presso tutti i popoli dell’Oriente. Tutte le lordure legali venivano cancellate col battesimo; è così che si consacravano i sacerdoti: ci si immergeva nell’acqua nella festa di espiazione solenne, si battezzavano i proseliti.
Gesù osservò tutti i punti della legge: festeggiò tutti i sabati; si astenne dalle carni proibite; celebrò tutte le feste e anche prima di morire aveva festeggiato la pasqua; non lo si accusò né di alcuna idea nuova, né di aver osservato riti stranieri. Nato israelita, visse costantemente da israelita.
Due testimoni che si presentarono lo accusarono di aver detto[69] “che avrebbe potuto distruggere il tempio e ricostruirlo in tre giorni”. Un simile discorso era incomprensibile per dei poveri mortali ebrei; ma non era un’accusa di voler fondare una nuova setta.
Il sommo sacerdote lo interrogò e gli disse: “Ti ordino per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo figlio di Dio”. Non ci viene detto che cosa intendesse il sommo sacerdote con ‘figlio di Dio’. A volte si ricorreva a questa espressione per indicare un giusto[70], come si usavano le parole ‘figlio di Belial’ per indicare un malvagio. I rozzi ebrei non avevano alcuna idea del sacro mistero di un figlio di Dio, Dio lui medesimo che scende sulla terra.
Gesù gli rispose: “Tu lo dici; ma io vi dico che vedrete tra poco il figlio dell’uomo seduto alla destra della virtù di Dio, venire sulle nubi dal cielo”.
Questa risposta fu considerata come una bestemmia dal sinedrio adirato. Il sinedrio non aveva più il diritto di amministrare la giustizia; condussero Gesù davanti al governatore romano della provincia e lo accusarono calunniosamente di essere un perturbatore dell’ordine pubblico che diceva che non si doveva pagare il tributo a Cesare, e che inoltre si dichiarava re dei giudei. È dunque più che palese che fu accusato di un crimine di stato.
Il governatore Pilato, avendo saputo che era un galileo, lo mandò prima di tutto da Erode, tetrarca di Galilea. Erode pensò che era impossibile che Gesù potesse aspirare a diventare capo di un partito e pretendere al trono; lo trattò con disprezzo e lo rimandò a Pilato, che ebbe l’indegna debolezza di condannarlo per sedare il tumulto scoppiato contro di lui, tanto più che aveva già calmato una rivolta degli ebrei, a quel che ci dice Flavio Giuseppe. Pilato non ebbe la stessa magnanimità che ebbe dopo il governatore Festo.
Io chiedo adesso se sia la tolleranza o l’intolleranza che è di diritto divino. Se voi volete assomigliare a Gesù Cristo, siate martiri e non boia.
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NOTE:
- ^ San Matteo, cap. XXII, v. 4.
- ^ San Luca, cap. XIV.
- ^ San Luca, cap. XIV, v. 26 e seguenti.
- ^ San Matteo, cap. XVIII, v, 17..
- ^ San Matteo, cap. XXIII.
- ^ Ibid., cap. XXVI, v. 59.
- ^ Matteo, cap. XXVI, v. 61.
- ^ Per gli ebrei era effettivamente molto difficile, se non impossibile, capire, senza una rivelazione precisa, quel mistero ineffabile dell’incarnazione del figlio di Dio, Dio lui stesso. La Genesi (cap. VI) chiama ‘figli di Dio’ i figli degli uomini potenti: allo stesso modo, nei Salmi (LXXIX, 11) i grandi cedri sono chiamati ‘cedri di Dio’. Samuele (I. Re, XVI, 15) dice che una ‘paura di Dio’ cadde sul popolo, cioè ‘una grande paura’; un gran vento, un ‘vento di Dio’; la malattia di Saul, ‘melancolia di Dio’. Tuttavia pare che gli ebrei abbiano inteso letteralmente che Gesù si sia definito ‘figlio di Dio’ nel senso lettarale; ma se hanno considerato queste parole come blasfeme, è forse un’ulteriore dimostrazione della loro ignoranza sul mistero dell’incarnazione, e di Dio, figlio di Dio, mandato sulla terra per la salvezza degli uomini.