Capitolo XII

Se l’intolleranza fu un diritto divino nel giudaismo, e se fu sempre praticata

Credo si definiscano come ‘diritto divino’ i precetti che Dio stesso ha dettato. Volle che gli ebrei mangiassero un agnello cotto con lattuga e che i convitati lo mangiassero in piedi e con un bastone in mano, per commemorare il Passaggio; ordinò che la consacrazione del grande sacerdote si facesse mettendo del sangue nel suo orecchio destro, nella sua mano destra e nel suo piede destro, usanze strane per noi, ma non per l’Antichità; volle che si incolpasse il capro Azazel delle iniquità del popolo; proibì che ci si cibasse[30] di pesci senza scaglie, di maiali, lepri, ricci, gufi, grifoni, issioni, ecc.

Istituì le feste, le cerimonie. Tutte queste cose che alle altre nazioni sembrano arbitrarie e appartenenti al diritto positivo, all’uso, essendo ordinate da Dio stesso, divenivano un diritto divino per gli ebrei, così come tutto ciò che Gesù Cristo, figlio di Maria e figlio di Dio, ci ha ordinato è diritto divino per noi.

Asteniamoci qui dal ricercare perché Dio abbia sostituito una legge nuova a quella che aveva dato a Mosè, e perché aveva ordinato a Mosè più cose che al patriarca Abramo, e più ad Abramo che a Noè[31].

Gustave Doré, Mosè scende dal monte Sinai
Gustave Doré, Mosè scende dal monte Sinai
È vero che, nell’Esodo, nei Numeri, nel Levitico, nel Deuteronomio, ci sono delle leggi severissime sul culto, e dei castighi ancora più severi. Molti commentatori fanno fatica a conciliare i racconti di Mosè con i brani di Geremia e di Amos e con il celebre discorso di Santo Stefano riportato negli Atti degli Apostoli. Amos dice[32]espressamente[33] che Dio non chiese alcun sacrificio ai loro padri quanto uscirono dall’Egitto. Santo Stefano, nel suo discorso agli ebrei, si esprime così: “Adorarono l’armata del cielo[34]; per quarant’anni non offrirono né sacrifici né ostie nel deserto; portarono il tabernacolo del dio Moloch e l’astro del loro dio Rempham.

Dal culto di tanti dei stranieri, altri critici deducono che questi dei furono tollerati da Mosè e citano come prova queste parole del Deuteronomio[35]: “Quando sarete nella terra di Canaan, non farete più come facciamo adesso, che ognuno fa quel che gli pare”[36].

La loro impressione si fonda sul fatto che non è menzionato alcun atto religioso del popolo nel deserto: nessuna pasqua celebrata, né pentecoste, nessun cenno che si sia celebrata la festa dei tabernacoli, nessuna preghiera pubblica stabilita; infine la circoncisione, questo sigillo dell’alleanza di Dio con Abramo, non fu affatto praticata.

Si avvalgono anche della storia di Giosuè. Questo conquistatore disse agli ebrei[37]: “Vi è data possibilità di scegliere: scegliete l’opzione che più vi piacerà: o adorare gli dei che avete servito nel paese degli Amorrei, o quelli che avete conosciuto in Mesopotamia”. Il popolo rispose: “Non è così che sarà, serviremo Adonai”. Giosuè replicò: “Avete fatto la vostra scelta; liberatevi dunque degli dei stranieri”. Dunque sotto Mosè avevano irrefutabilmente avuto degli altri dei diversi da Adonai.

È inutile confutare qui i critici che pensano che il Pentateuco non sia stato scritto da Mosè; da tanto tempo tutto è stato già detto a questo proposito; e quand’anche qualche piccola parte dei libri di Mosé fosse stata scritta al tempo dei giudici o dei pontefici, non sarebbero meno ispirati o meno divini.

Mi pare sia abbastanza evidente nelle Sacra Scrittura che, malgrado la punizione straordinaria ricevuta dagli ebrei per il culto di Apis, essi conservarono a lungo una libertà totale: può anche darsi che il massacro di ventitremila uomini che fece Mosè per il vello eretto da sua fratello, gli abbia fatto capire che con il rigore non si otteneva nulla, e che fosse stato obbligato a chiudere un occhio sulla passione del popolo per gli dei stranieri.

Lui stesso[38] sembra presto trasgredire la legge che ha dato. Aveva proibito qualsiasi simulacro, tuttavia eresse un serpente di bronzo. La stessa eccezione alla legge si ritrova poi nel tempio di Salomone: questo principe fa scolpire dodici buoi a sostegno della grande vasca del tempio; nell’arca sono posti dei cherubini; hanno una testa di aquila e una testa di vitello; e con ogni probabilità fu questa testa di vitello mal fatta, trovata nel tempio dai soldati romani, che fece a lungo credere che gli ebrei adorassero un asino.

Il culto degli dei stranieri è proibito invano; Salomone è sicuramente idolatra. Geroboamo, a cui Dio donò dieci parti del regno, fa erigere due vitelli d’oro, e regna ventidue anni accentrando su di sé le cariche di monarca e pontefice Sotto Roboamo, il piccolo regno di Giuda erige degli altari stranieri e delle statue. Il santo re Asa non distrusse affatto gli altari[39]. Il grande sacerdote Uria eresse nel tempio, al posto dell’altare degli olocausti, un altare del re di Siria[40]. In poche parole, non si vede alcun divieto sulla religione. So che la maggior parte dei re ebrei si sterminarono, si uccisero gli uni con gli altri; ma ciò avvenne per il loro interesse e non per la loro fede.

È vero che[41] tra i profeti ci furono alcuni che misero in mezzo il cielo nella loro vendetta: essa fece discendere il fuoco celeste per consumare i sacerdoti di Ball; Eliseo fece venire degli orsi per divorare quarantadue bambini che lo avevano chiamato ‘zucca pelata’; ma questi sono miracoli rari, e fatti che difficilmente si vorrebbe imitare.

Si obietta, poi, che il popolo ebreo fu molto ignorante e barbaro. Sta scritto[42] che nella guerra che fece ai Madianiti[43], Mosè ordinò di uccidere tutti i bambini maschi e tutte le madri, e di spartire il bottino. I vincitori trovarono nel campo 675000 pecore, 72000 buoi, 61000 asini e 32000 giovinette; se li spartirono e uccisero tutto il resto. Molti commentatori sostengono anche che trentadue giovani furono immolate al Signore: “Cesserunt in partem Domini triginta duae animae“.

In effetti gli ebrei immolarono degli esseri umani alla Divinità, prova ne è il sacrificio di Iefte[44], e il re Agag[45] fatto a pezzi dal sacerdote Samuele. Ezechiele stesso promette loro, per incoraggiarli, che avrebbero mangiato carne umana. “Voi mangerete, dice, il cavallo e il cavaliere; berrete il sangue dei principi”. Molti commentatori riferiscono due versetti di questa profezia agli stessi ebrei, e gli altri agli animali che si nutrono di carogne. In tutta la storia di questo popolo non si trova alcun tratto di generosità, magnanimità, benevolenza; però tra le nubi di questa barbarie così lunga e terribile, spunta sempre qualche raggio di tolleranza universale.

Iefte, ispirato da Dio, a cui sacrificò la propria figlia, disse agli Ammoniti[46] “Ciò che il vostro dio Chamos vi ha dato, non vi appartiene di diritto? Accettate dunque che noi prendiamo la terra che il nostro Dio ci ha promesso”. Questa dichiarazione è precisa: può portare molto lontano; ma almeno è una prova evidente che Dio tollerava Chamos. Perché la Sacra Scrittura non dice: “Voi pensate di avere diritto alle terre che voi dite che vi sono state date dal dio Chamos”; dice affermativamente: “Voi avete diritto, tibi iure debentur“; ed è l’esatto significato delle parole ebraiche ‘Otho thirasch‘.

La storia di Micha e del levita, raccontata nei capitoli XVII e XVIII del Libro dei Giudici, è ancora un’altra prova inconfutabile della grandissima tolleranza e libertà ammessa a quei tempi presso gli ebrei. La madre di Micha, moglie ricchissima di Efraim, aveva perso mille e cento monete; suo figlio gliele riportò: lei votò queste monete a Dio e ne fece fare degli idoli; costruì una piccola cappella. Un levita serviva la cappella in cambio di dieci monete, una tunica, un mantello all’anno e il cibo; e Micha esclamò[47]: “È adesso che Dio mi farà del bene, poiché ho presso di me un sacerdote della tribù di Levi.

Tuttavia seicento uomini della tribù di Dan, che cercavano di impadronirsi di qualche villaggio nel paese e a stabilirsi lì, ma che non avevano alcun sacerdote levita con loro e avendone bisogno affinché Dio favorisse la loro impresa, andarono da Micha e presero la sua tunica, i suoi idoli e il suo levita, malgrado le resistenze del sacerdote e malgrado le grida di Micha e di sua madre. Allora andarono fiduciosi all’attacco del villaggio chiamato Lais, e lo misero tutto a ferro e fuoco, come era il loro uso. Diedero il nome di Dan a Lais, in memoria della loro vittoria; misero l’idolo di Micha su un altare; e, cosa che è più notevole, Jonathan, nipote di Mosè, fu il gran sacerdote di quel tempio, dove erano adorati sia il Dio di Israele sia l’idolo di Micha.

Dopo la morte di Gedeone, gli ebrei adorarono Baal-bérith per vent’anni e rinunciarono al culto di Adonai, senza che alcun capo, giudice o sacerdote gridasse vendetta. Il loro crimine era grande, lo ammetto; ma se perfino questa idolatria fu tollerata, tanto meglio dovevano esserlo le differenze nel vero culto!

Alcuni presentano come prova di intolleranza il fatto che il signore stesso, avendo permesso che la sua Arca fosse presa dai Filistei in una battaglia, punì i Filistei soltanto colpendoli con una malattia segreta simile alle emorroidi, rovesciando la statua di Dagon, e inviando una moltitudine di ratti nelle loro campagne; ma quando, per placare la sua collera, i Filistei restituirono l’arca con attaccate due mucche che allattavano i loro vitellini, e offrirono a Dio cinque ratti d’oro, e cinque ani d’oro, il Signore fece morire settanta anziani d’Israele e cinquantamila uomini del popolo perché avevano guardato l’arca. Rispondiamo che il castigo del Signore non cade su una credenza, su una differenza nel culto, né su alcuna idolatria.

Se il Signore avesse voluto punire l’idolatria, avrebbe fatto morire tutti i Filistei che osarono prendere la sua arca e che adoravano Dagon; ma fece morire cinquatamila e settanta uomini del suo popolo solo perché avevano guardato la sua arca che non dovevano guardare: tanto le leggi e i costumi di quel tempo e l’economia ebrea differiscono da tutto quello che noi conosciamo; tanto le vie imperscrutabili di Dio sono sopra le nostre. Dice il saggio Dom Calmet: “Il rigore esercitato contro questo gran numero di uomini sembrerà eccessivo solo a coloro che non hanno compreso fino a che punto Dio volesse essere temuto e rispettato dal suo popolo, e che giudicano i pensieri e i disegni di Dio solo seguendo le deboli luci della lora ragione.

Quindi Dio non punisce un culto straniero, ma una profanazione del suo, una curiosità insolente, una disobbedienza, forse anche uno spirito di ribellione. Si vede bene che tali castighi non appartengono che a Dio nella teocrazia ebrea. Non si ribadisce mai abbastanza che quei tempi e quei costumi non hanno alcun rapporto con i nostri.

Infine quando, nei secoli successivi, Naaman l’idolatra chiese a Eliseo se gli era concesso di seguire il suo re[48] nel tempio di Remnon, e di stare in adorazione con lui, quello stesso Eliseo, che aveva fatto divorare i bambini dagli orsi, non gli rispose forse “Vai in pace”?

Ce n’è ancora; il Signore ordinò a Geremia di mettersi delle corde al collo, dei collari[49] e dei gioghi, e di inviarli ai piccoli sovrani (o melkim) di Moab, Ammone, Edom, Tiro, Sidone; e Geremia gli fa dire dal Signore; “Ho dato tutte le vostre terre a Nabucodonosor, re di Babilonia, mio servitore”[50]. Ecco un re idolatra dichiarato servitore di Dio e suo favorito.

Lo stesso Geremia, che il piccolo sovrano ebreo Sedecia aveva fatto arrestare, avendo ottenuto il perdono da Sedecia, gli consiglia, da parte di Dio, di arrendersi al re di Babilonia[51]: “Se vi arrendete ai suoi ufficiali, dice, la vostra anima vivrà”. Perciò alla fine Dio prese le parti di un dio idolatra; gli dà l’arca, la cui sola vista aveva costato la vita a cinquatamila e settanta ebrei; gli dà il Santo dei santi, e il resto del tempio, la cui costruzione era costata centottomila talenti d’oro, un milione e diciasettemila talenti d’argento, e diecimila dracme d’oro, lasciate da Davide e i suoi ministri per la costruzione della casa del Signore: il che, senza contare gli ultimi messi da Salomone, costituisce una somma pari a circa diciannove miliardi e sessantadue milioni dei nostri giorni. Mai idolatria fu più remunerata. So che questo calcolo è esagerato, che probabilmente c’è stato un errore del copista; ma riducete la somma alla metà, a un quarto, anche a un ottavo, e vi stupirà ancora. Non ci si stupisce di meno per le ricchezze che Erodoto dice di aver visto nel tempio di Efeso. Infine i tesori non sono niente agli occhi di Dio, e il titolo di suo servitore, dato a Nabucodonosor, è il vero tesoro inestimabile.

Dio[52] non favorisce di meno il Kir, o Koresh, o Kosroés, che noi chiamiamo Ciro; lo chiama ‘il suo cristo’, ‘il suo unto’, benché non fosse unto secondo il significato comune di questo termine, e benché seguisse la religione di Zoroastro; lo chiama il suo pastore, benché fosse usurpatore agli occhi degli uomini: non c’è in tutta la Sacra Scrittura un segno di predilezione più grande.

Vedete in Malachia che “da ponente a occidente il nome di Dio è grande in tutte le nazioni e gli si offrono ovunque delle offerte pure”. Dio ha cura degli idolatri niniviti come degli ebrei; li minaccia e li perdona. Melchisedech, che non era ebreo, faceva sacrifici a Dio. Balaam, idolatra, era un profeta. Quindi la Scrittura ci insegna che non solo Dio tollerava tutti gli altri popoli, ma che ne aveva una cura paterna: e invece noi abbiamo l’ardire di essere intolleranti!

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NOTE:

  1.  ^  Deuteronomio, cap. XIV.
  2.  ^  Con l’idea di fare qualche nota utile su quest’opera, noi facciamo qui notare che sta scritto che Dio fa un’alleanza con Noè e con tutti gli animali; e malgrado questo permette a Noè di mangiare tutto ciò che ha vita e movimento; fa eccezione solamente del sangue, di cui non permette che ci si nutra. Dio aggiunge (Genesi, IX, 5) che “si vendicherà di tutti gli animali che hanno sparso il sangue degli uomini”.
    Da questi e vari altri brani si può ricavare ciò che tutta l’Antichità ha sempre pensato fino ai nostri giorni, e ciò che tutti gli uomini di buon senso pensano, cioè che gli animali abbiano qualche forma di conoscenza. Dio non fa affatto un patto con gli alberi e le pietre, che non hanno coscienza; ma ne fa uno con gli animali, che ha degnato di dotare di un sentimento spesso più fine del nostro, e di qualche idea necessariamente connessa a questo sentimento. È per questo motivo che non vuole che si abbia la barbarie di nutrirsi del loro sangue, perché in effetti il sangue è la fonte della vita, e quindi del sentimento. Private un animale di tutto il sua sangue, tutti i suoi organi non possono funzionare. È dunque a ragion veduta che la Scrittura dice in cento punti che l’anima, vale a dire quella che veniva detta ‘anima sensitiva’, è nel sangue; e questa idea così naturale è stata quella di tutti i popoli.
    È su questa idea che si fonda la pietà che noi dobbiamo avere per gli animali. Dei sette precetti dell’alleanza noachica, ammessi dagli ebrei, ce n’è uno che proibisce di mangiare le membra di un animale vivo. Questo precetto dimostra che gli uomini avevano avuto la crudeltà di mutilare gli animali per magiare le loro membra tagliate, e che li lasciavano vivere per nutrirsi successivamente delle parti dei loro corpi. Questo costume esisteva in effetti in qualche popolo barbaro, come si può vedere dai sacrifici dell’isola di Chio a Bacco Omadios, il mangiatore di carne cruda. Dunque Dio, pur permettendo che gli animali ci servano da nutrimento, raccomanda un po’ di umanità nei loro confronti. Bisogna riconoscere che è una barbarie farli soffrire; sicuramente è solo l’abitudine che può diminuire in noi l’orrore naturale di sgozzare un animale che abbiamo nutrito con le nostre mani. Ci sono sempre stati dei popoli che se ne sono fatti molto riguardo: questo riguardo persiste ancora nella penisola indiana; tutta la setta di Pitagora, in Italia e in Grecia, si astenne costantemente dal mangiare la carne. Porfirio, nel suo libro dell’Astinenza, rimprovera il suo discepolo di aver abbandonato la sua setta solo per abbandonarsi al suo barbaro appetito.
    Bisogna, mi sembra, aver rinunciato al buon senso naturale per osare sostenere che gli animali sono solo degli automi. C’è una contraddizione evidente a riconoscere che Dio ha dato agli animali tutti gli organi di senso e a sostenere poi che non gli ha dato alcun sentimento.
    Mi sembra inoltre che non si deve aver mai osservato gli animali per non distinguere in essi i differenti accenti del bisogno, della sofferenza, della gioia, della paura, dell’amore, della collera, e di tutti i loro sentimenti; sarebbe proprio strano che sapessero esprimere così bene ciò che non sentono.Questa osservazione può fornire molti spunti di riflessione agli animi che indagano sul potere e sulla bontà del Creatore, che si degna di accordare la vita, il sentimento, le idee e la memoria agli esseri a cui lui stesso ha dato forma con la sua mano onnipotente. Noi non sappiamo né come si sono formati questi organi, né come si sviluppano, né come riceviamo la vita, né per quali leggi i sentimenti, le idee, la memoria e la volontà siano collegate a questa vita: in questa profonda ed eterna ignoranza, connessa alla nostra natura, noi dibattiamo senza sosta, ci perseguitiamo gli uni con gli altri, come i tori che si battono con le corna senza sapere come e perché hanno le corna.
  3.  ^  Amos, cap. V, v. 26.
  4.  ^ Geremia, cap. VII, v. 22.
  5.  ^  Atti, cap. VII, v. 42-43.
  6.  ^ Deuteronomio, cap. XII, v. 8.
  7.  ^  Molti scrittori hanno temerariamente dedotto da questo brano che il capitolo sul vitello d’oro (che non è altro che il dio Apis) è stato aggiunto ai libri di Mosè, così come molti altri capitoli.
    Abenèzra fu il primo che credette di dimostrare che il Pentateuco era stato redatto nel periodo dei re. Wollaston, Collins, Tindal, Shaftesbury, Bolingbroke, e molti altri, hanno sostenuto che, allora, la sola maniera di scrivere consisteva nell’arte di incidere i propri pensieri sulla pietra levigata, sul mattone, sul piombo o sul legno; dicevano che ai tempi di Mosè i Caldei e gli Egiziani non scrivevano in alcun altro modo; che non si poteva allora incidere se non in una maniera molto abbreviata, e in geroglifici, l’essenza delle cose che si volevano trasmettere alla posterità, e non delle storie dettagliate; che non era possibile incidere dei grossi libri in un deserto dove si cambiava dimora così spesso, dove non c’era nessuno che potesse fornire i vestiti, o tagliarli, o anche solo aggiustare i sandali, e dove Dio fu obbligato a fare un miracolo di quarant’anni (Deuteronomio, VIII, 5) per conservare i vestiti e le scarpe del suo popolo. Dicono che non è verosimile che ci fossero tanti incisori di caratteri, quando scarseggiavano le arti più necessarie e non si poteva nemmeno fare il pane; e se si dice loro che le colonne del tabernacolo erano di bronzo, e i capitelli d’argento massiccio, essi rispondono che l’ordine avrebbe potuto essere stato dato nel deserto, ma che fu realizzato solo in tempi più sereni.
    Non riescono a concepire che questo popolo povera abbia chiesto un vitello d’oro massiccio (Esodo, XXXII, 1) per adorarlo ai piedi della medesima montagna dove Dio parlò a Mosè, nel bel mezzo dei fulmini e delle saette che questo popolo vedeva (Esodo, XIX, 18-19), e al suono di trombe celesti che ascoltava. Si meravigliano che la vigilia del giorno stesso in cui Mosè scese dalla montagna, tutto questa gente si sia rivolta al fratello di Mosè per avere quel vitello d’oro massiccio. Come fece Aronne a fonderlo in un solo giorno (Esodo, XXXII, 4) ? Come fece poi Mosè a ridurlo in polvere (Esodo, XXXII, 20)? DIcono sia impossibile per qualsiasi artista realizzare una statua d’oro in meno di tre mesi, e che, per ridurla in polvere tanto fine da poterla inghiottire, la più grande perizia nell’arte della chimica non basterebbe; dunque la prevaricazione di Aronne e l’azione di Mosè sarebbero stati due miracoli.
    L’umanità, la bontà d’animo, che li traggono in inganno, impediscono loro di credere che Mosè abbia fatto sgozzare ventritré mila persone (Esodo, XXXII, 28) per espiare questo peccato; non riescono a concepire che ventiré mila uomini sis siano lasciati massacrare in questo modo da dei leviti, a meno che non si tratti di un terzo miracolo. Infine trovano strano che Aronne, il più colpevole di tutti, sia stato ricompensato del crimine di cui gli altri si erano macchiati così orribilmente (Esodo, XXXIII, 19; e Levitico, VIII, 2) e che sia stato fatto grande sacerdote, mentre i cadaveri di ventritré mila suoi fratetelli sanguinanti erano ammassati ai piedi dell’altare dove andava a fare sacrifici.
    Manifestano le stesse riserve sui ventiquattromila istraeliti massacreati per ordine di Mosè (Numeri, XXV, 9) per espiare l’errore di un solo uomo che era stato sorpreso con una giovane madianita. Si vedono tanti re ebrei, e soprattutto Salomone, sposare impunemente delle straniere, che questi critici non possono ammettere che l’unione di una madianita sia stata un crimine così grande: Rut era moabita, benché la sua famiglia fosse originaria di Betlemme; la Sacra Scrittura chiama sempre Rut ‘la moabita’: tuttavia lei andò a infilarsi nel netto di Booz su consiglio di sua madre; ne ricevette sei misure d’orzo, poi lo sposò, e fu l’antenata di Davide. Raab non solo era straniera, ma era anche una donna pubblica; la Vulgata non le dà altro nome se non quello di meretrice (Giosuè, VI, 17); sposò Salmon, principe di Giuda; ed è ancora da questo Salmon che discende Davide. Raab viene considerata addirittura come immagine della Chiesa cristiana; è l’opinione di molti Padri della Chiesa, e soprattutto di Origene nella sua settima omelia su Giosuè.
    Betsabea, moglio di Uria, da cui Davide ebbe Salomone, era etea. Se si va ancora più indietro nel tempo, il patriarca di Giuda sposò una donna cananea; i suoi figli ebbere per moglie Thamar, della stirpe di Aram: questa donna, con cui Giuda commise, a sua insaputa, un incesto, non era della stirpre di Israele. Allo stesso modo nostro Signore Gesù Cristo si degnò di incarnarsi tra gli ebrei in una famiglia che aveva cinque antenati stranieri, per far vedere che le nazione straniere avrebbero avuto parte della sua eredità.
    Il rabbino Aben-Hezra fu, come è stato detto, il primo che abbia osato sostenere che il Pentateuco fosse stato redatto molto tempo dopo Mosè: egli si basa su vari brani. “Il cananeo (Genesi IX, 6) era allora in questo paese. Il monte Moria (II. Paralip., III, 1) era chiamato ‘il monte di Dio’. Il letto di Og, re di Bazan, si vede ancora a Rabath, ed egli chiamò tutta questa terra di Bazan ‘i villaggi di Jaïr’, fino ad oggi. In Istraele non si è mai visto un profeta come Mosè Qui ci sono i re che hanno regnato a Edom (Genesi, XXXVI, 31) prima che alcun re regnasse su Israele”. Egli sostiene che questi brani, in cui si parla di fatti accaduti dopo Mosè, non possono essere di Mosè. A queste obiezioni si risponde che quei brani sono delle note aggiunte molto tempo dopo dai copisti.
    Newton, di cui peraltro non si deve pronunciare il nome che non rispetto, ma che ha potuto cadere in errore poiché era un essere umano, nell’ introduzione ai suoi commenti su Daniele e San Giovanni attribuisce i libri di Mosè, di Giosuè e dei Giudici a degli autori sacri molto posteriori: si basa sul capitolo XXXVI della Genesi; sui quattro capitoli dei Giudici, XVII, XVIII, XIX, XXI; su Samuele, cap. VIII, sulle Cronache, cap. II; sul libro di Rut, cap. IV; e in effetti se nel cap. XXXVI della Genesi si parla dei re, se non se ne fa menzione nel libro dei Giudici, se nel libro di Rut si parla di Davide, pare che tutti questi libri siano stati redatti nel periodo dei re. È opinione anche di qualche teologo, primo tra tutti il famoso Leclerc. Ma questa opinione non ha che un piccolo numero di seguaci la cui curiosità sonda questi abissi. Questa curiosità, senza dubbio, non rientra nei doveri dell’uomo. Quando i sapienti e gli ignoranti, i principi e i contadini appariranno dopo questa breve vita davanti al signore dell’eternità, ognuno di noi allora vorrà essere giusto, umano, compassionevole, generoso; nessuno si vanterà di aver saputo esattamente in quale anno fu scritto il Pentateuco, e di aver separato il testo dalle note che erano in uso presso gli scribi. Dio non ci chiedere se noi abbiamo dato il nostro appoggio ai Massoreti contro il Talmud, se non abbiamo mai preso un ‘caph‘ per un ‘beth‘, uno ‘yod‘ per un ‘vaü‘, un ‘daleth‘ per un ‘res‘: sicuramente ci giudicherà per le nostre azione e non sulla conoscenza della lingua ebraica. Noi ci atteniamo fermamente alla decisione della Chiesa, come si conviene ragionevolmente ad un fedele.
    Finiamo questa nota con un brano importante del Levitico, libro composto dopo l’adorazione del vitello d’oro. Egli ordinò agli ebrei di non adorare più i capri, “i becchi con i quali avevano addirittura commesso delle abominevoli infamie”. Non si sa se questo strano culto veniva dall’Egitto, patria della superstizione e del sortilegio; ma si pensa che l’usanza dei nostri supposti stregoni di andare al sabba, di adorarvi un caprone, e di abbandonarsi con esso a delle inconcepibili turpitudini, il cui solo pensiero fa orrore, sia arrivata dagli antichi ebrei: infatti furono loro che insegnarono la stregoneria in una parte dell’Europa. Che popolo! Un’infamia così inaudita sembrava meritare un castigo simile a quello che procurò loro il vitello d’oro, e invece il legislatore si limita a dare loro un semplice divieto. Riportiamo questo fatto esclusivamente per far conoscere il popolo ebreo: la bestialità doveva essere diffusa presso di loro, poiché questa è la sola nazione a noi nota presso la quale le leggi sono state costrette a proibire un crimine che d’altra parte non è stato mai concepito da alcun legislatore.
    C’è da supporre che a causa delle fatiche e dei patimenti che gli ebrei avevano sofferto nel deserto di Paran, di Oreb, e di Cadès-Barné, il genere femminile, più debole, non ce l’abbia fatta. È molto probabile, in effetti, che tra gli ebrei le donne scarseggiassero, perché gli viene sempre imposto, quando si impossessano di un borgo o di un villaggio, sia a destra sia a sinistra del Mar Morto, di uccidere tutti, tranne le donne nubili.
    Gli arabi che abitano ancora una parte di quei deserti stipulano sempre, nei trattati che fanno con le caravane, che gli siano date delle giovani nubili. È verosimile che i giovani, in questo terribile paese, abbiano spinto la depravazione della natura umana fino al punto di accoppairsi con le capre, come si dice facciano alcuni pastori della Calabria.
    Resta ora da capire se questi accoppiamenti avessero creato dei mostri, e se ci sia qualche fondamento negli antichi racconti dei satiri, dei fauni, dei centauri e dei minotauri; la storia ne parla, la fisica non ci ha ancora illuminato su questo terribile argomento.
  8.  ^  Giosuè, cap. XXIV, v. 15 e seguenti.
  9.  ^  Numeri, cap. XXI, v. 9.
  10.  ^  Re, libro III, cap. XV, v 14; ibid., cap. XXII, v. 44.
  11.  ^  Re, libro IV, cap. XVI.
  12.  ^ Ibid., libro III, cap. XVIII, V. 38 e 40; ibid., libro IV, cap. II, v. 24.
  13.  ^  Numeri, cap. XXXI.
  14.  ^ Madian non faceva parte della terra promessa: è un piccolo angolo dell’Idumea, nell’Arabia Petrea; comincia a Nord con il torrente d’Arnon e finisce con torrente di Zared, in mezzo alle rocce e sulla riva orientale del Mar Morto. Attualmente questo paese è abitato da una piccola orda di arab: misurerà circa otto leghe in lunghezza, e un po’ meno in larghezza.
  15.  ^  È sicuro, per la scrittura (Giudici, XI, 39), che Iefte immolò sua figlia. “Dio non approva questi voti, dice dom Calmet nella sua Dissertazione sul voto di Iefte; ma una volta che sono stati fatti, vuole che siano eseguiti, anche solo per punire coloro che li hanno fatti, o per reprimere la leggerezza con cui li si avrebbe fatti, se non se ne fosse temuta l’esecuzione”: Sant’Agostino e quasi tutti i Padri condannano l’azione di Iefte: è vero che la scrittura (Giudici, XI, 29) dice che fu colmato dallo spirito di Dio; e San Paolo, nella sua Lettera agli Ebrei, cap. XI (versetto 32) fa l’elogio di Iefte; lo colloca tra Samuele e Davide.
    San Girolamo, nella sua Lettera a Giuliano, afferma: “Iefte immolò sua figli al Signore, ed è èer questo che l’apostolo lo annovera tra i santi”. Ecco da una parte e dall’altra dei giudizi sui quali non ci è permesso di esprimere il nostro; dobbiamo perfino temere di avere un’opinione.
  16.  ^ Si può considerare la morte del re Agag come un vero sacrificio. Saul aveva fatto prigioniero di guerra questo re degli Amaleciti, e aveva deciso di risparmiargli la vita; ma il sacerdote Samuele gli aveva ordinato non risparmiare niente; gli aveva detto letteralmente (I. Re, XV, 3): “Uccidi tutti, uomini, donne e bambini, anche quelli che succhiano ancora il seno”.
    Samuele fece a pezzi il re Agag, davanti al Signore, a Galgal.”
    Lo zelo che animava questo profeta, dice dom Calmet, gli mise la spada in mano in questa occasione per vendicare la gloria del Signore e per confondere Saül”. Vediamo, in questa fatale vicenda, un voto, un sacerdote, una vittima: era dunque un sacrificio.
    Tutti i popoli di cui conosciamo la storia hanno offerto dei sacrifici umani alla Divinità, tranne i Cinesi. Plutarco (Quest. rom. LXXXII) riferisce che i romani stessi ne immolarono ai tempi della repubblica.Vediamo, nei Commentari di Cesare (De Bello gall., I, XXIV) che i Germani andavano ad immolare gli ostaggi che lui gli aveva dato, quando liberò questi ostaggi con la sua vittoria.
    Ho notato, d’altra parte, che questa violazione dei diritti delle persone verso gli ostaggi di Cesare, e queste vitime umane immolate, per colmo dell’orrore, dalle mani delle donne, smentisce un po’ il panegirico che Tacito fa dei Germani, nel suo trattato De Moribus Germanorum. Sembra che, in questo trattato, Tacito si preoccupi più di fare la satira dei Romani che l’elogio dei Germani, che non conosceva.
    Diciamo qui, per inciso, che Tacito amava la satira ancor più della verità. Vuole rendere tutto odioso, perfino le azioni indifferenti, e la sua malignità ci piace quasi quanto il suo stile, perché a noi piace la maldicenza e lo spirito.
    Ritorniamo alle vittime umane. I nostri padri ne immolavano altrettanto che i Germani: è l’ultimo grado della stupidità della nostra natura abbandonata a se stessa, ed è uno dei frutti della debolezza del nostro giudizio. Dicemmo: “Bisogna offrire a Dio ciò che abbiamo di più prezioso e di più bello; non abbiamo niente di più prezioso dei nostri figli; bisogna dunque scegliere i più belli e i più giovani per sacrificarli alla Divinità”.
    Filone dice che, nella terra di Canaan, qualche volta si immolavano i propri figli prima che Dio avesse ordinato ad Abramo di sacrificargli il figlio Isacco come prova della sua fede.
    Sanchoniathon, citato da Eusebio, riporta che in caso di grande pericolo i fenici sacrificavano il più caro dei loro figli, e che Ileo immolò suo figlio Jehud pressapoco nel periodo in cui Dio mise alla prova la fede di Abramo. È difficile penetrare nelle tenebre di questa antichità; ma è fin troppo vero che questi orribili sacrifici sono stati praticati quasi dappertutto; i popoli non se ne sono disfatti finché non si sono via via civilizzati; la civiltà conduce all’umanità.
  17.  ^  Giudici, cap. XI, v. 24.
  18.  ^  Giudici, cap. XVII, ultimo versetto.
  19.  ^  Re, libro IV, cap. V, v. 18 e 19.
  20.  ^ Coloro che sanno poco sugli usi degli Antichi, e che non giudicano che sulla base di quello che vedono intorno a loro, possono rimanere stupiti da queste stranezze; ma bisogna pensare che allora in Egitto e in una gran parte dell’Asia la maggior parte delle cose si esprimeva con delle figure, dei geroglifici, dei segni, dei tipi.
    I profeti, che venivano chiamati ‘veggenti’ tra gli egiziani e gli ebrei, non solo si esprimevano in allegorie, ma rappresentavano con dei segni gli avvenimenti che annunciavano. Così Isaia, il primo dei quattro grandi profeti ebrei, prende un rotolo (cap. VIII) e scrive: “Shas bas, raccogliete presto”; poi si avvicina alla profetessa. Ella concepisce e mette al mondo un figlio che lui chiama Maher-Salas-Has-bas: è una rappresentazione dei mali che i popoli d’Egitto e di Assiria faranno agli ebrei.
    Questo profeta dice (VII, 15, 16, 18, 20): “Prima che il figlio abbia l’età per mangiare del burro e del miele, e che sappia respingere il male e scegliere il bene, la terra da voi detestata sarà liberata da due re; il Signore fischierà alle mosche d’Egitto e alle api d’Assur; il Signore prenderà un rasoio in affitto e con esso raderà tutta la barba e i peli dei piedi del re d’Assur”.
    Questa profezia delle api, della barba, e del pelo dei piedi rasati, non può essere intesa se non da coloro che sanno che era usanza chiamare gli essaim al suono del piffero o di qualche altro strumento campestre; che il più grande affronto che si potesse fare a un uomo era tagliargli la barba; che si chiamava ‘pelo dei piedi’ il pelo pubico; che non si rasava questo pelo che nelle malattie immonde, come la lebbra. Tutte queste metafore così estranee al nostro stile significano semplicemente che il Signore, entro qualche anno, libererà il suo popolo dall’oppressione.
    Lo stesso Isaia (cap. XX) cammina completamente nudo per rimarcare che il re di Assiria porterà dall’Egitto e dall’Etiopia una folla di prigionieri che non avranno neanche di che coprire le loro nudità.
    Ezechiele (cap. IV e seguenti) mangia il volume di pergamena che gli è stato presentato; poi copre il suo pane di escrementi e rimane coricato sul suo fianco sinistro per trecentonovanta giorni, e sul fianco destro quaranta giorni, per far capire che gli ebrei non avranno pane, e per simboleggiare gli anni che doveva durare la prigionia. Si carica di catene, che simboleggiano quelle del popolo; si taglia barba e capelli e li separa in tre parti; il primo terzo rappresenta quelli che devono morire nella città; il secondo, quelli che saranno messi a morte intorno alle mura; il terzo, quelli che devono essere condotti a Babilonia.
    Il profeta Osea (cap. III) si unisce ad una donna adultera, che compra per quindici monete d’argento e una misura e mezza di orzo: “Mi aspetterai, le dice, molti giorni, e in questo periodo nessun uomo si avvicinerà a te: è la condizione in cui i figli d’Israele saranno a lungo senza re, senza prìncipi, senza sacrificio, senza altare, senza veste sacerdotale”. In poche parole, i nabis, i veggenti, i profeti non fecero quasi mai predizioni senza rappresentare con un simbolo la cosa predetta. Quindi Geremia non fa altro che conformarsi alla tradizione quando si lega con delle corde e si mette dei collari e dei gioghi sulla schiena per rappresentare la schiavitù di coloro a cui invia quei simboli. Se ci facciamo caso, quei tempi sono come i tempi di un mondo antico che è completamente diversa da quello nuovo: la vita civile, le leggi, la maniera di fare la guerra, le cerimonie religiose, tutto è completamente diverso. Basta soltanto aprire Omero e il primo libro di Erodoto per convincersi che noi non abbiamo niente a che fare con i popoli della Prima Antichità, e che dobbiamo diffidare dal nostro giudizio quando tentiamo di confrontare i loro costumi con quelli nostri.
    Anche la natura non era quella che c’è adesso. I maghi avevano su di essa un potere che non hanno più: incantavano i serpenti, evocavano i defunti, ecc. Dio mandava dei sogni e gli uomini li spiegavano. Il dono della profezia era molto comune. Si assisteva a metamorfosi quali quelle di Nabucodonosor trasformato in bue, della moglie di Loth in statua di sale, di cinque città in un lago di bitume.
    C’erano specie umane che non esistono più. La razza dei giganti Refaim, Enim, Nefilim, Enacim è scomparsa. Sant’Agostino, nel libro V della Città di Diodice di aver visto il dente di un antico gigante, grande quanto cento dei nostri molari. Ezechiele (XXVII, II) parla dei pigmei gamadei, alti mezzo metro, che combattevano nell’assedio di Tiro; e su quasi tutti questi argomenti gli autori sacri concordano con i profani. Le malattie e i rimedi non erano gli stessi dei nostri giorni: i posseduti si guarivano con la radice chiamata ‘barad’, incastonata in un anello che si metteva loro sotto il naso.
    Infine tutto il mondo antico era così diverso dal nostro che non è possibile ricavarne alcuna regola di condotta; e se in questa inaccessibile antichità gli uomini si fossero perseguitati e oppressi a vicenda a causa del loro culto, non si dovrebbe imitare questa crudeltà ora che siamo sotto la legge della grazia.
  21.  ^  Geremia, cap. XXVII, v. 6.
  22.  ^  Geremia, cap. XXVIII, v. 17.
  23.  ^  Isaia, cap. XLIV e XLV.