Aggiunta successiva in cui si dà notizia della sentenza definitiva in favore della famiglia Calas

Dopo il 7 marzo 1763, passarono altri due anni prima di arrivare al giudizio definitivo: è tanto facile al fanatismo strappare la vita all’innocenza, quanto è difficile alla ragione farle rendere giustizia. Toccò subire delle lungaggini inevitabili, necessariamente legate alle formalità. Meno queste formalità erano state osservate nella condanna di Calas, più dovevano essere rigorosamente osservate dal consiglio di stato. Una anno intero non bastò per obbligare il parlamento di Tolosa a far pervenire al consiglio tutta la procedura, per esaminarla, per riferirla. M. de Crosne fu di nuovo incaricato di questo lavoro penoso. Un’assemblea di quasi ottanta giudici annullò la sentenza di Tolosa e ordinò la revisione totale del processo.

In quel periodo quasi tutti i tribunali del regno erano occupati da altri casi importanti. I gesuiti furono cacciati; la loro compagnia fu abolita in Francia: erano stati intolleranti e persecutori; furono a loro volta perseguitati.

La stravaganza dei biglietti per la confessione, di cui si suppose fossero gli autori segreti, e di cui erano pubblicamente i sostenitori, aveva già rinfocolato contro di loro l’odio della nazione. Una colossale bancarotta di uno dei loro missionari, bancarotta che si suppone in parte fraudolenta, completò la loro perdita. Queste semplici parole di ‘missionari’ e ‘bancarottieri’, così poco adatte ad essere unite insieme, portarono in tutti gli animi la sentenza della loro condanna. Infine le rovine di Port-Royal e le ossa di tanti uomini famosi insultati da loro nelle loro tombe, ed esumati all’inizio del secolo da degli ordini che i soli gesuiti avevano dettato, si levarono tutti contro il loro rispetto ormai agonizzante. Possiamo vedere la storia della loro proscrizione nell’eccellente libro intitolato Sulla distruzione dei gesuiti in Francia, opera imparziale, perché è di un filosofo, scritta con la finezza e l’eloquenza di Pascal, e soprattutto con una luce superiore che non è offuscata, come in Pascal, da pregiudizi che hanno talvolta sedotto dei grandi uomini.

Questo grande caso, sul quale qualche sostenitore dei gesuiti diceva che la religione era offesa, e nel quale la maggior parte la credeva vendicata, fece per molti mesi perdere di vista al pubblico il processo dei Calas; ma dopo che il re ebbe attribuito il processo per giudizio definitivo al tribunale che si chiama ‘les requêtes de l’hôtel‘, lo stesso pubblico, che ama passare da una scena all’altra, dimenticò i gesuiti, e i Calas occuparono tutta la sua attenzione.

Il tribunale delle requêtes de l’hôtel è una corte sovrana composta da consiglieri che giudicano i processi tra gli ufficiali e le cause inviate dal re. Non potevano scegliere un tribunale meglio informato sul caso: erano proprio gli stessi magistrati che avevano giudicato due volte i preliminari della revisione, e che conoscevano perfettamente il contenuto e le procedure. La vedova di Jean Calas, suo figlio, e il signor de Lavaisse furono rimessi in prigione; si fece venire dalla lontana Linguadoca quella vecchia domestica cattolica che non aveva mai lasciato un momento i suoi padroni e la sua padrona, nel periodo in cui si supponeva, contro ogni evidenza, che essi avessero strangolato il proprio figlio e fratello. Si deliberò, finalmente, sugli stessi documenti che avevano valso a Jean Calas la condanna alla ruota, e l’esilio a suo figlio Pierre.

Fu allora che uscì fuori un altro memoriale difensivo dell’eloquente M. de Beaumont, e un altro del giovane M. de Lavaisse, così ingiustamente coinvolto in questa procedura criminale dai giudici di Tolosa, che per colmo di contraddizione non l’avevano dichiarato assolto. Questo giovane compose lui stesso un memoriale che tutti giudicarono degno di comparire a fianco di quello di M. de Beaumont. Aveva il doppio vantaggio di parlare per sé stesso e per quella famiglia con cui aveva condiviso le catene. Stava solo a lui rompere le sue e uscire dal carcere di Tolosa, se solo avesse acconsentito a dire che aveva lasciato un momento i Calas nel periodo di tempo in cui si pretendeva che il padre e la madre avessero assassinato il loro figlio. Lo avevano minacciato di suppliziarlo; la domanda e la morte erano state presentate ai suoi occhi; una parola gli avrebbe potuto restituire la libertà: preferiva esporsi al supplizio che pronunciare quella parola che sarebbe stata una bugia. Egli espose tutti questi dettagli nel suo memoriale, con un candore tanto nobile, tanto semplice, tanto avulso da qualsiasi ostentazione, che toccò tutti i cuori che non voleva far altro che convincere, e che si fece ammirare senza aspirare alla fama.

Carmontelle - Calas
La famiglia Cals ascolta il giovane Lavaisse mentre legge il Memoriale composto da M. de Beaumont.
Suo padre, celebre avvocato, non ebbe alcuna parte in quest’opera: egli si vide tutto d’un tratto eguagliato da suo figlio, il quale non aveva mai messo piede in tribunale.

Nel frattempo le persone di massimo prestigio si affollavano nella prigione di Mme Calas, dove era rinchiusa insieme alle sue figlie. Ci si commuoveva fino alle lacrime. L’umanità, la generosità offrivano loro aiuto. Quella che chiamiamo ‘carità’ non ne offriva loro nessuno. La carità, che del resto è così spesso meschina e offensiva, è appannaggio dei devoti, e i devoti erano ancora contro i Calas.

Venne il giorno (9 marzo 1765) in cui l’innocenza trionfò pienamente. Quando M. de Baquencourt ebbe riportato tutta la procedura e ricostruito il caso fin nei minimi dettagli, tutti i giudici, a voce unanime, dichiararono la famiglia innocente, abusivamente e persecutoriamente giudicata dal parlamento di Tolosa. Essi riabilitarono la memoria del padre. Permisero alla famiglia di presentare ricorso a chi di dovere per rivalersi contro i loro giudici e ottenere il risarcimento delle spese, i danni e gli interessi che i magistrati di Tolosa avrebbero dovuto offrirsi di dare.

A Parigi fu una festa per tutti: ci si assembrava nelle pubbliche piazze, nei viali; si accorreva a vedere questa famiglia così sfortunata e così giustamente riabilitata; si battevano le mani quando si vedevano passare i giudici, li si colmava di benedizioni. Quello che rendeva questo spettacolo ancora più toccante, è che quel giorno, il 9 marzo, era il medesimo giorno in cui (tre anni prima) Calas era morto per il supplizio più crudele.

I giudici del tribunale avevano reso alla famiglia Calas una giustizia completa, e in questo non avevano fatto che il loro dovere. C’è un altro dovere, quello della benevolenza, più raramente adempiuto dai tribunali, che sembrano credersi fatti per essere solamente equi. I giudici del tribunale stabilirono che essi scrivessero a Sua Maestà per supplicarlo di rimediare con i suoi doni alla rovina della famiglia. La lettera fu scritta. Il re rispose facendo consegnare trentaseimila lire alla madre e ai figli; e di queste trentaseimila lire, ce n’erano tremila per quella domestica virtuosa che aveva costantemente difeso la verità difendendo i suoi padroni.

Con questa buona azione, come per tante altre, il re meritò il soprannome che l’amore della nazione gli ha dato. Possa questo esempio servire ad ispirare agli uomini la tolleranza, senza la quale il fanatismo desolerebbe la terra, o perlomeno la rattristerebbe sempre! Sappiamo che qui non si tratta che di una sola famiglia, e che la rabbia delle sette ne ha fatte morire migliaia; ma oggi che un’ombra di pace lascia riposare tutte le comunità cristiane, dopo secoli di carneficine, è in questo periodo di tranquillità che la sventura dei Calas deve fare un’impressione più grande, pressapoco come il tuono che irrompe nella serenità di una bella giornata. Questi casi sono rari, ma accadono, e sono effetto di quella cupa superstizione che porta gli animi deboli a imputare dei crimini a chiunque non la pensi come loro.