Capitolo I, Breve storia della morte di Jean Calas
Voltaire ripercorre il caso giudiziario di Jean Calas, commerciante sessantottenne di Tolosa, accusato di aver strangolato e ucciso il figlio Marc-Antoine, ritrovato morto nella cantina dell’abitazione paterna. Non esistono prove della colpevolezza di Jean Calas; le accuse nei suoi confronti si basano su pregiudizi religiosi ispirati dal fanatismo. Jean Calas, infatti, è protestante, e solo per questo fatto l’unica ipotesi plausibile sembra che sia stato lui stesso ad uccidere il figlio, probabilmente perché aveva scoperto che si voleva convertire al cattolicesimo.
Voltaire sottolinea quanto questa ipotesi sia inverosimile. Il movente non regge: Jean Calas non si era mai dimostrato intollerante nei confronti delle altre religioni: infatti da molti anni teneva in casa sua una domestica cattolica, e quando un altro dei suoi figli volle convertirsi, non fece obiezione. Quindi perché avrebbe dovuto reagire tanto violentemente con Marc-Antoine, al punto di ucciderlo? Anche lo svolgimento dei fatti dimostra che Jean Calas, un uomo anziano e debole, non può avere strangolato da solo suo figlio, giovane e robusto; l’accusa risponde sostenendo, ancor più assurdamente, che all’omicidio avrebbero partecipato tutti i Calas, compresa la madre, la domestica, i fratelli e anche l’amico Lavaisse che casualmente si trovava a cena da loro al momento del fatto. Voltaire ritiene più ragionevole che Marc-Antoine abbia deciso di suicidarsi impiccandosi, spinto da debiti di gioco e da depressione psichica. Purtroppo il fanatismo ebbe la meglio sulla ragione: mentre i tolosani presero a venerare Marc-Antoine come martire della fede, i giudici di Tolosa condannarono Jean Calas alla tortura della ruota; il resto della famiglia non fu condannato a morte ma subì vessazioni e ingiustizie. La vedova Calas, su consiglio di amici, si recò a Parigi per ottenere un po’ di giustizia e di sostegno, essendo ormai allo stremo delle forze.
Capitolo II, Conseguenze del supplizio di Jean Calas
Voltaire parte dall’ingiusta condanna di Jean Calas per fare delle considerazioni di più ampio respiro sulla violenza ispirata dal fanatismo religioso e sulla pericolosità di certe confraternite. Manifesta il proposito di parlare delle dispute religiose che hanno insanguinato l’Europa, affinché anche le persone poco istruite possano venire a conoscenza di tutti gli orrori che hanno causato.
Capitolo III, Rapido quadro della Riforma del XVI secolo
Voltaire descrive le barbare torture riservate agli eretici; dimostra che queste pene furono ingiuste, perché gli eretici non si dimostrarono contrari alla morale né al regno. La loro colpa era quella di aver messo in discussione dei dogmi di fede che fruttavano bene al clero, e per questo furono messi al rogo. Voltaire descrive poi gli orribili massacri di Merindol e Cabrières: questi tranquilli borghi, abitati da pacifici pastori che vivevano del loro lavoro senza aver mai infastidito nessuno, furono ridotti in cenere; uomini, donne e bambini furono massacrati orribilmente solo per il fatto di essere valdesi. Altre persecuzioni si succedettero, sia da una parte che dall’altra: nove guerre civili insanguinarono la Francia, fino ad arrivare alla notte di San Bartolomeo. Voltaire conclude che l’umanità, l’indulgenza e la libertà di coscienza, benché considerate da alcuni delle cose orribili, non avrebbero mai provocato tutte queste calamità.
Capitolo IV, Se la tolleranza sia pericolosa, e presso quali popoli sia permessa
A chi teme che la tolleranza sia pericolosa e porti violenza, Voltaire risponde che questo non può accadere, perché i costumi si sono addolciti, i tempi sono cambiati, c’è più giustizia. Voltaire passa in rassegna vari popoli, stati e paesi presso cui è in vigore la tolleranza. Germania, Inghilterra e Olanda hanno anch’esse conosciuto gli orrori delle guerre di religione, ma ora in questi paesi c’è libertà di religione e pari diritti per tutti i cittadini, a prescindere dalla religione che professano; anche chi è di un’altra religione può contribuire alla ricchezza e al benessere del paese, può essere utile per la società. Anche l’India, la Grecia, la Persia e la Tartaria praticano la tolleranza. La Cina si dimostrò molto tollerante, e fu magnanima anche verso i gesuiti, che però fu poi costretta ad allontanare perché avevano cominciato a perturbare il paese con le loro dispute. Anche il Giappone si dimostrò molto tollerante, ammettendo nel suo territorio dodici diverse religioni; quando però i gesuiti vollero portare la tredicesima e pretesero che tutte le altre sparissero, si scatenò una tremenda guerra civile, in seguito alla quale il Giappone chiuse le porte all’Occidente. Anche in America ci sono grandi esempi di tolleranza, sia in Carolina che in Pennsylvania. Voltaire conclude ricordando che la tolleranza non ha mai prodotto guerre civili, mentre l’intolleranza sì: la tolleranza è la strada da percorrere per il bene della società.
Capitolo V, Come può essere ammessa la tolleranza
Voltaire si augura che in Francia ci possa essere tolleranza per tutte le fedi religiose, anche per i calvinisti. Molti di coloro che sono stati esiliati sarebbero pronti a tornare in Francia: in cambio di uguali diritti come cittadini, potrebbero portare beneficio e ricchezza al paese. Esistono ancora dei fanatici, sia da una parte che dall’altra; tuttavia la ragione è la medicina che può guarire da questa malattia; il senso del ridicolo può estirpare certi assurdi comportamenti meglio della forza. Dopo aver visto tante guerre, questo è un periodo di sazietà e di ragionevolezza; la gente desidera la tranquillità pubblica. I tempi sono maturi per far tornare in patria i figli espatriati, senza che ciò comporti alcun rischio per la nazione, ma anzi un vantaggio.
Capitolo VI, Se l’intolleranza appartiene al diritto naturale o al diritto umano
Voltaire parte dalla considerazione che il diritto umano si fonda su quello naturale; la base di entrambi i diritti è il semplice principio “non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te”, valido ovunque su tutta la terra. Perciò non è proprio possibile ammettere l’intolleranza come un diritto: non è possibile uccidere, ripudiare, esiliare, togliere i diritti ad un altro uomo solo perché non vuole credere a quello che crediamo noi. Agire in questo modo è barbaro e bestiale.
Capitolo VII, Se i Greci abbiano praticato l’intolleranza
Voltaire analizza l’atteggiamento degli antichi greci nei confronti dei culti religiosi; nessuno venne mai perseguitato perché adorava altri dei. Anzi, spesso i greci stessi offrivano sacrifici agli dei stranieri o agli dei dei nemici per propiziarseli; vigeva una sorta di legge di ospitalità anche nei confronti delle divinità straniere. I greci erano molto tolleranti; credevano in un Essere supremo, ma poi ammettevano un ricco stuolo di divinità minori, a cui potevano aggiungervene altre senza alcun limite. Voltaire parla diffusamente del caso di Socrate: dimostra che non può essere preso come esempio di intolleranza, perché Socrate fu condannato a morte non per le sue idee religiose, ma perché si era fatto molti nemici; la sua morte fu poi vendicata; gli ateniesi presero le distanze dai giudici che emisero quella sentenza, ed eressero un tempio a Socrate.
Capitolo VIII, Se i Romani siano stati tolleranti
I romani furono molto tolleranti nei confronti di altre religioni e non perseguitarono mai nessuno, nemmeno chi negava apertamente che esistessero gli Inferi, o perfino Dio stesso. I romani credevano che spettasse agli dei vendicare le offese fatte agli dei, perciò non si sono mai presi l’incarico di punire o castigare qualcuno per le sue idee religiose. Essi si preoccupavano di governare il mondo terreno: quando sottomettevano un popolo, gli imponevano il rispetto delle leggi, ma non gli imponevano alcun culto. I romani permisero tutti i culti e si dimostrarono sempre molto tolleranti verso qualsiasi forma religiosa. Permisero il culto egizio, e anche quello degli ebrei, con cui intrattennero da sempre ottimi rapporti commerciali. I cristiani non furono trattati con meno tolleranza e rispetto: in effetti, inizialmente, i romani non potevano nemmeno essere consapevoli della differenza tra ebrei e cristiani. Inizialmente i primi nemici che ebbero i cristiani furono proprio gli ebrei, e i romani spesso ne presero le difese quando gli ebrei li volevano uccidere. Voltaire conclude citando il massacro dei cristiani sotto Nerone, precisando però che quella violenza non fu dettata da motivi religiosi, bensì dalla vendetta verso coloro che si pensava fossero responsabili del grave incendio che colpì la città.
Capitolo IX, Dei martiri
Voltaire inizia ad esaminare i martiri cristiani. Secondo lui è molto difficile che questi martiri siano stati condannati al supplizio per la loro religione; in effetti, perché condannare solo i cristiani, visto che i romani erano tolleranti verso tutti gli altri culti? È più probabile che i martiri siano stati condannati per altri motivi, non per la loro religione. A ben vedere le storie dei martiri cristiani, in effetti ci sono indizi di colpevolezza nei confronti delle leggi romane, e questo verosimilmente è il vero motivo che sta dietro il loro martirio. Alcuni di questi martiri si dimostrarono loro stessi intolleranti e violenti nei confronti degli altri culti. Voltaire esamina le storie dei primi martiri cristiani, mettendone in luce le incongruenze e gli anacronismi, e dimostra che è molto difficile credere veramente che siano stati uccisi solo per la loro fede.
Capitolo X, Del pericolo delle false leggende e delle persecuzioni
Voltaire continua ad esaminare le storie di alcuni martiri cristiani, facendone notare le incongruenze e gli anacronismi. Secondo Voltaire queste leggende, oltre a non essere vere, possono rappresentare un pericolo per la fede; in effetti, far passare per vero ciò che non lo è può generare sfiducia e diffidenza nei fedeli che, sentendosi ingannati, potrebbero rifiutare in blocco tutto ciò che riguarda la religione e diventare atei.
Capitolo XI, Abuso dell’intolleranza
Voltaire dimostra che essere tolleranti è necessario anche nei confronti di chi ha un’idea sbagliata, purché essa non turbi l’ordine civile. È l’intolleranza che, al contrario, può causare disordini. Non spetta all’uomo imporre una religione; se quella religione è giusta, sarà Dio stesso a tenerla in vita. L’intolleranza genera solamente ipocriti o ribelli; sarebbe inoltre un controsenso uccidere chi non crede nella religione cristiana, il cui Dio si è fatto uccidere e ha predicato solo pazienza e mitezza. Voltaire prosegue considerando la questione dei diritti civili: i diritti spettano ai cittadini in quanto tali, non perché di una certa religione piuttosto che di un’altra. In effetti, un re diventa re per diritto di nascita, e non può essere destituito a causa delle sue convinzioni religiose; allo stesso modo, un cittadino ha il diritto di ereditare i beni del padre, a prescindere dalla sua religione. A supporto della tolleranza, Voltaire fa notare che i principi religiosi non sono sempre stati esposti con chiarezza e linearità: ad esempio, un tempo si credeva che lo spirito santo procedesse solo dal padre, non dal figlio, e solo in tempi recenti è stato istituito il dogma dell’immacolata concezione. Non è perciò sensato condannare chi si attiene alle vecchie professioni di fede. Voltaire porta gli apostoli e gli evangelisti come esempio di tolleranza: in effetti, pur con tutte le contraddizioni in materia di fede testimoniate nei Vangeli e nelle Sacre Scritture , non ci furono mai scontri o dispute violente. Infine, Voltaire conclude considerando che, se si ammette l’intolleranza come giusta, allora si è costretti ad ammettere che il più grande santo è colui che ha ucciso più infedeli; e questo sarebbe un metro di giudizio alquanto strano.
Capitolo XII, Se l’intolleranza fu un diritto divino nel giudaismo, e se fu sempre praticata
Voltaire dimostra che nell’Antico Testamento ci sono vari episodi in cui Dio si mostra tollerante nei confronti degli israeliti: anche quando trasgrediscono alle leggi sul culto; anche quando praticano l’idolatria; anche quando adorarono gli dei stranieri. Voltaire mostra che, anche nei casi in cui Dio interviene duramente contro gli israeliti, lo fa più per punire la disobbedienza del suo popolo che l’idolatria in sé. E comunque, precisa, quei tempi non hanno nulla a che fare con i nostri, per cui non si deve ricavare dagli episodi narrati nella Bibbia che sia giusto essere intolleranti verso chi professa altre religioni.
Capitolo XIII, Estrema tolleranza degli Ebrei
A sostegno della tolleranza degli ebrei, Voltaire porta ad esempio il libro di Ezechiele, che fu comunque inserito nel canone degli autori ispirati da Dio nonostante fosse in contraddizione con la legge di Mosè. Anche i sadducei, i farisei e gli esseni furono tollerati, benché di opinioni diverse in materia di fede.
Capitolo XIV, Se l’intolleranza sia stata insegnata da Gesù Cristo
Voltaire esamina i pochi passi del Vangelo che possono indurre il lettore a credere che sia giusto essere intolleranti: la parabola del banchetto di nozze, la parabola dell’invito a cena in cui gli invitati non si presentano, la parabola del fico sterile, e infine il passo in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio. Voltaire dimostra che questi brani del Vangelo non devono essere interpretati come invito all’intolleranza o alla violenza, perché non ce n’è motivo. Di contro, i brani in cui vi è un chiaro invito alla tolleranza e all’indulgenza sono numerosi: la parabola del figliol prodigo, il samaritano caritatevole, il perdono della peccatrice, ecc. La prova suprema della tolleranza di Gesù si trova nel momento della morte, quando chiede al padre di perdonare chi lo ha crocifisso. Voltaire infine traccia un parallelismo tra la morte di Socrate e la morte di Gesù: non morirono per motivi di intolleranza religiosa, ma perché furono vittime di invidia e calunnia.
Capitolo XV, Testimonianze contro l’intolleranza
Un capitolo costituito da brevi massime che testimoniano come la tolleranza sia stata sempre predicata, e che, al contrario, l’intolleranza, la violenza e la costrizione abbiano sempre avuto dei detrattori, dai primi santi fino alla contemporaneità.
Capitolo XVI, Dialogo tra un moribondo e un uomo in buona salute
Questo capitolo è completamente costituito da un dialogo tra un moribondo e un uomo che viene al suo capezzale con l’unico scopo di fargli firmare delle dichiarazioni sulla fede e sulla dottrina. Il moribondo è molto sofferente ma riesce ad opporsi a questa richiesta; l’uomo, che voltaire chiama ‘il barbaro’, allora passa alle minacce: dice al moribondo che la sua famiglia non erediterà nulla, sarà costretta a mendicare e a morire di fame. Il moribondo non può firmare cose in cui non crede; ‘il barbaro’ gli dice di firmare ugualmente e di morire da ipocrita, perché l’ipocrisia è una buona cosa. Ma il moribondo non vuole dire menzogne in punto di morte, perché sa che tra poco sarà a cospetto di Dio. Dopo pochi istanti muore. ‘Il barbaro’ allora prende il documento e falsifica la firma del defunto, perché quella firma è per lui un modo di ottenere un buon canonicato.
Capitolo XVII, Lettera scritta da un beneficiario al Gesuita Le Tellier, il 6 maggio 1714
In questo capitolo Voltaire immagina che un beneficiario scriva una lettera al gesuita Le Tellier, il confessore del re; in questa lettera il beneficiario si offre di consigliare il padre gesuita sul modo più semplice di risolvere il problema dei nemici della fede. La lettera è un crescendo di iperboli ed esagerazioni che si sviluppano punto dopo punto: il beneficiario infatti suggerisce di eliminarli tutti o impiccandoli, o facendoli saltare in aria, o avvelenandoli, in un crescendo di misfatti che contrasta con la formalità dello scritto e con lo sforzo di argomentare logicamente queste stragi. Lo scopo di Voltaire è far riflettere il lettore: se è evidente l’assurdità dei propositi espressi in forma così esagerata nella lettera, è legittimo condividere almeno parzialmente i propositi ivi espressi? In quali casi è permesso uccidere chi non la pensa come noi? A ciò risponde il capitolo seguente.
Capitolo XVIII, Gli unici casi in cui l’intolleranza è di diritto umano
Voltaire mostra che gli unici casi in cui l’intolleranza può essere giustificata si verificano quando gli errori umani diventano dei crimini; quando alcuni uomini fanno del male a degli altri uomini, quando arrecano loro danno.
Capitolo XIX, Resoconto di una disputa teologica in Cina
Il capitolo narra lo svolgimento di una disputa teologica avvenuta in Cina tra un cappellano della compagnia danese, un cappellano di Batavia e un gesuita. I tre religiosi discutevano così animatamente che li udì anche un mandarino che abitava poco distante da lì; egli li mandò a chiamare e chiese loro il motivo del loro discutere. I tre religiosi si accusarono l’un altro appellandosi a ragioni che il mandarino non poteva capire: il mandarino li interruppe avvisandoli che se volevano essere tollerati, dovevano imparare a tollerarsi. Tuttavia i tre religiosi, usciti dalla casa del mandarino, ripresero a disputare nel loro solito modo. Allora il mandarino li fece arrestare, con l’ordine di non lasciarli andare finché non fossero giunti ad un accordo, o finché non si fossero perdonati; o almeno finché non avessero fatto finta di essersi perdonati.
Capitolo XX, Se sia utile mantenere il popolo nella superstizione
Voltaire ritiene che la superstizione possa essere utile per porre un freno alla malvagità umana; purché non siano omicide, le superstizioni sono preferibili all’ateismo e alla mancanza di religione. Tuttavia la superstizione è una falsa idea che prospera quando gli esseri umani mancano di una religiosità più sana e più pura; nel momento in cui un popolo può credere in una vera religione, è insensato nutrirlo ancora di false idee e superstizioni. Voltaire nomina i giansenisti, che hanno contribuito ad epurare la religione cristiana dalle credenze superstiziose. Voltaire guarda con ottimismo ai progressi che la ragione e la civiltà hanno apportato in questo ambito; egli osserva che la luce della ragione sta penetrando sempre di più in Francia, presso tutte le classi sociali, anche le più umili, facendo regredire sempre più le superstizioni. L’istruzione permette agli uomini di difendersi dai ‘maestri di errori’, cioè da coloro che vogliono abbruttire e imbarbarire il genere umano persuadendolo che le loro false credenze sono vere, magari citando le sacre scritture a sostegno delle loro tesi assurde, o addirittura ricorrendo alla violenza e alla persecuzione. Voltaire conclude dicendo che di tutte le superstizioni, la più pericolosa è odiare il prossimo per le sue opinioni; meglio credere alle superstizioni più assurde che odiare e perseguitare i propri fratelli.
Capitolo XXI, La virtù val più della scienza
Voltaire comincia il capitolo invocando meno dogmi. In effetti, l’uomo ha bisogno di due cose: di essere giusto per essere felice nell’altra vita, e di essere indulgente per essere felice in questa vita. È impossibile riuscire a mettere d’accordo tutti gli uomini su questioni metafisiche, e sarebbe una follia pretendere di imporre le proprie convinzioni con la violenza. Voltaire rievoca la prima disputa delle storia del cristianesimo, quella tra Ario e il vescovo Alessandro, che erano in disaccordo sulla maniera in cui il Logos (il Figlio) discende dal Padre. L’imperatore Costantino avrebbe potuto liquidare questa disputa come una questione incomprensibile e non conoscibile da parte dell’essere umano, ma non lo fece. E da quel momento la storia del cristianesimo è stata un susseguirsi di dispute, sofismi e spade.
Capitolo XXII, Della tolleranza universale
Voltaire in questo capitolo si appella al senso di fratellanza che dovrebbe spingere tutti gli uomini a tollerare le proprie diverse idee e fedi religiose. L’uomo, piccolo abitante di un piccolo pianeta di un infinito universo, è piuttosto supponente quando crede che solo il suo ‘formicaio’ sia caro a Dio, mentre gli altri sono destinati alla dannazione. Non ha senso perseguitare, processare, condannare chi ha una fede diversa dalla nostra. I cristiani pensano che fuori dalla loro Chiesa non può esservi salvezza, per questo ricorrono anche a metodi molto duri per convincere gli altri uomini a camminare nella retta via; tuttavia, dice Voltaire, non si possono conoscere tutte le vie del Signore, e la sua misericordia è tanto grande che non possiamo essere noi a determinare con certezza chi non si salverà. Nella vita pratica, capita che i cristiani abbiano contatti con persone di altre fedi, per motivi commerciali o politici: questi contatti avvengono senza che nessuno si ponga il problema di parlare con un infedele o un dannato. Gesù stabilì questa regola molto semplice: “ama Dio e il tuo prossimo”; ma questa regola è stata sovraccaricata da sofismi e dogmi complicati; dispute feroci sono state accese a causa di una parola o addirittura di una sola lettera dell’alfabeto. Per evitare tutto questo, basterebbe immaginare il giorno del giudizio: difficile credere che Dio possa condannare all’inferno persone del calibro di Confucio, Solone, Pitagora, Socrate, Platone, ecc. solo perché sono morti fuori dalla regole prescritte.
Capitolo XXIII, Preghiera a Dio
Voltaire si rivolge direttamente a Dio invocandolo di far comprendere agli esseri umani che sono fratelli, e che non devono dare importanza a cose di poco valore, come la differenza di condizione o di ricchezza. Non devono essere invidiosi gli uni degli altri, e non devono perseguitarsi nel nome della religione. Devono capire che la pace e la vita sono doni preziosi di cui ringraziare Dio, in mille lingue diverse, da un angolo all’altro della terra.
Capitolo XXIV, Post Scriptum
Voltaire in questo capitolo polemizza con l’abate Malvaux, autore di un libello intitolato “Accordo della religione e dell’umanità”. Mentre il ‘Trattato sulla tolleranza’ di Voltaire ha lo scopo di rendere l’umanità più mite e compassionevole, lo scopo del libello di Malvaux sembra procedere proprio nella direzione opposta. Punto di riferimento di Malvaux è Sant’Agostino, che se in un primo tempo predicò la tolleranza, poi cambiò avviso e predicò la persecuzione. Voltaire ironizza con l’autore del libello, che non menziona mai chiamandolo per nome, e dice che lo vedrebbe bene nelle vesti di un inquisitore. Voltaire contesta all’abate Malvaux soprattutto un punto: considerare che le minoranze si possano giustamente estinguere senza che questo possa comportare un grave danno per il paese; Voltaire dimostra con un documento storico che ciò non è vero; le minoranze hanno dei diritti che vanno tutelati per il bene di tutto il paese, non solo dal punto di vista umano, ma anche da un punto di vista politico ed economico.
Capitolo XXV, Seguito e conclusione
Voltaire comunica che il caso Calas è stato discusso a Versailles e loda la magnanimità del re di Francia. Chiarisce che ciò che lo ha mosso a scrivere questo trattato è lo spirito di giustizia, verità e pace, e che non intendeva offendere i giudici di Tolosa che hanno condannato a morte Jean Calas, ma anzi, che ha offerto loro l’occasione di redimersi prestando aiuto alla vedova e ai figli di Calas. Voltaire risponde a chi gli ha scritto sollevando il dubbio che questa sua opera possa nuocere ai Calas: ciò non è possibile perché il suo trattato non è un documento giudiziario, e perciò non ha alcun interesse per i giudici; Voltaire confida che il consiglio del re lavorerà con imparzialità e attenendosi alle regole processuali. Voltaire conclude il capitolo dando voce alla Natura, che si rivolge agli uomini con la preghiera di dare ascolto al germe di compassione che essa ha seminato nei loro cuori affinché si possano tollerare ed aiutare a vicenda. La natura è l’unica voce che va ascoltata, anche per quel che riguarda la giustizia, perché le leggi fatte dagli uomini sono di fatto confuse e contraddittorie.
Aggiunta successiva in cui si dà notizia della sentenza definitiva in favore della famiglia Calas
Voltaire aggiunge questo capitolo per dire che nel 1765, due anni dopo la presentazione del caso Calas a Versailles, finalmente i Calas furono pienamente assolti. Questa lentezza fu dovuta al fatto che il caso meritava di essere esaminato con molto scrupolo; inoltre altri processi occuparono la corte francese in quel periodo, come ad esempio quello che portò all’abolizione della compagnia dei gesuiti. Il caso dei Calas fu assegnato al tribunale delle requêtes de l’hôtel. Lavaisse fu lui stesso autore di un memoriale, e uno ne compose M. de Beaumont. Finalmente il 9 marzo 1975 la famiglia Calas venne dichiarata innocente e giudicata abusivamente e persecutoriamente dal parlamento di Tolosa. La notizia venne accolta con gioia in tutta Parigi. Il re contribuì a risarcire la famiglia Calas economicamente. Voltaire conclude con l’augurio che la vicenda dei Calas possa far riflettere gli uomini sul valore della tolleranza e sui danni del fanatismo che induce gli uomini a imputare dei crimini più orrendi chi ha opinioni diverse dalle proprie.