Capitolo VII

Se i Greci abbiano praticato l’intolleranza

I popoli di cui la storia ci ha concesso qualche piccola conoscenza hanno tutti considerato le loro differenti religioni come dei nodi che li univano tutti insieme: era una associazione del genere umano. C’era una specie di diritto di ospitalità tra le divinità così come tra gli uomini. Se uno straniero arrivava in una città, cominciava ad adorare le divinità del paese. Non si faceva mai a meno di venerare le divinità dei propri nemici. I troiani rivolgevano delle preghiere agli dei che combattevano per i greci.

Alessandro andò a consultare nel deserto libico il dio Amon, che i greci chiamarono ‘Zeus’ e i romani ‘Giove’, benché gli uni e gli altri avessero il loro ‘Giove’ e il loro ‘Zeus’ a casa loro. Quando si cingeva d’assedio una città, si faceva un sacrificio e delle preghiere agli dei della città per propiziarseli. Allo stesso modo, nel bel mezzo della battaglia, la religione riunificava gli uomini e mitigava talvolta il loro furore, se a volte ordinava loro delle azioni inumane e orribili.

Mi posso anche sbagliare; ma mi sembra che di tutti gli antichi popoli civilizzati, nessuno abbia minacciato il libero pensiero. Tutti avevano una religione; ma mi sembra che ne facessero uso con gli uomini come con i loro dei; riconoscevano tutti un dio supremo, ma gli associavano una quantità fenomenale di divinità inferiori; avevano un solo culto, ma ammettevano un’infinità di sistemi particolari.

I greci, per esempio, benché fossero religiosi, ritenevano un bene che gli epicurei negassero la Provvidenza e l’esistenza dell’anima. Per non parlare di altre sette che ferivano tutte le idee sane che bisogna avere dell’Essere creatore, e che erano tutte tollerate.

Socrate, che più si avvicinò alla conoscenza del Creatore, ne soffrì, si dice, le pene, e morì martire della Divinità; è il solo che i greci abbiano fatto morire per le sue idee. Se questa fu, in effetti, la causa della sua condanna, questo non rende onore all’intolleranza, poiché fu punito solo colui che rese gloria a Dio e furono onorati tutti quelli che attribuirono alla divinità i concetti più indegni. I nemici della tolleranza non devono, a mio avviso, menar vanto dell’odioso esempio dei giudici di Socrate.

Jacques-Louis David, Morte di Socrate
Jacques-Louis David, Morte di Socrate

È evidente, d’altronde, che fu vittima di un partito furioso aizzato contro di lui. Si era irrimediabilmente inimicato i sofisti, gli oratori, i poeti che insegnavano nelle scuole, e anche tutti i precettori che si occupavano dei bambini di buona famiglia. Confessa lui stesso, nel suo discorso riferito da Platone, che andava di casa in casa a dimostrare a questi precettori che non erano altro che degli ignoranti. Questo comportamento non era degno di colui che un oracolo aveva indicato come il più saggio tra gli uomini. Gli si aizzarono contro un sacerdote e un consigliere dei Cinquecento, che l’accusarono; confesso che non so di preciso di che cosa, vedo solo vaghi accenni nella sua Apologia; gli si fa dire in generale che lo si imputava di instillare nei giovani dei principi contrari alla religione e al governo. È così che sono soliti fare tutti i calunniatori del mondo; ma in un tribunale c’è bisogno di fatti assodati, di capi d’accusa precisi e circostanziati: è ciò che il processo di Socrate non ci fornisce affatto; sappiamo solo che in un primo momento ebbe duecentoventi voti a suo favore. Il tribunale dei Cinquecento contava dunque duecentoventi filosofi: è tanto; dubito che li si troverebbe altrove. Infine, la maggioranza decise per la cicuta; ma consideriamo anche che gli ateniesi, tornati in sé, ebbero orrore degli accusatori e dei giudici; che Melito, il principale autore di questa sentenza, fu condannato a morte per questa ingiustizia; che gli altri furono banditi, e si eresse un tempio a Socrate. Mai la filosofia fu così ben vendicata, né tanto onorata. L’esempio di Socrate è in fondo il più terribile argomento che si possa addurre contro l’intolleranza. Gli ateniesi avevano un altare dedicato agli dei stranieri, agli dei che non potevano conoscere. C’è forse una dimostrazione migliore non solo di indulgenza per tutte le nazioni, ma anche di rispetto per i loro culti?

Un uomo onesto, che non è nemico né delle ragione, né delle letteratura, né della rettitudine o della patria, giustificando di lì a poco la notte di San Bartolomeo, nomina la guerra dei Focesi, detta ‘la guerra santa’, come se questa guerra fosse scoppiata per il culto, il dogma, per questioni teologiche; si trattava di stabilire a chi apparteneva un campo: è l’argomento di tutte le guerre. Dei covoni di grano non sono un simbolo religioso; mai nessuna città greca ha combattuto per delle opinioni. D’altronde, cosa pretende quest’uomo mite e modesto? Vuole che facciamo una guerra santa?