Capitolo XI

Abuso dell’intolleranza

Ma come! Sarà permesso a ciascun cittadino di non credere che alla sua ragione e di pensare ciò che questa ragione, illuminata o ingannata, gli detterà? È necessario[28], purché non turbi l’ordine; perché non dipende dall’uomo il fatto di credere o non credere, ma dipende da lui rispettare gli usi della sua patria; e se voi diceste che è un reato non credere alla religione dominante, voi stessi accusereste i primi cristiani vostri padri, e giustifichereste quelli che voi accusate di averli immolati al martirio.

Voi replichereste che c’è una grossa differenza, che tutte le religioni sono opera degli uomini e che solo la Chiesa Cattolica Apostolica Romane è opera di Dio. Ma, in buona fede, solo perché la nostra religione è divina essa deve regnare con l’odio, la rabbia, gli esili, la confisca dei beni, le prigioni, le torture, i delitti e l’atto di rendere grazie a Dio per questi delitti? Più la religione cristiana è divina, meno spetta all’uomo imporla; se Dio l’ha fatta, Dio la terrà in vita senza di voi. Voi sapete che l’intolleranza genera soltanto ipocriti o ribelli: che triste alternativa! Vorreste infine difendere con dei boia la religione di un Dio che è stato ucciso dai boia e che non ha predicato altro che la pazienza e la mitezza?

Considerate, vi predo, le conseguenze disastrose del diritto dell’intolleranza. Se fosse permesso spogliare dei suoi beni, chiudere in cella, ammazzare un semplice cittadino che, sotto una certa latitudine, non professasse la religione ammessa sotto quel grado, quale eccezione esonererebbe i capi di stato dalle medesime pene? La religione lega allo stesso modo sia il re sia i mendicanti: così più di cinquanta dottori o monaci hanno sostenuto quell’orrenda mostruosità per cui è permesso deporre e uccidere i sovrani che non la pensano come la Chiesa dominante; e i parlamenti del regno non hanno smesso di proscrivere queste abominevoli decisioni di teologi abominevoli[29].

Il sangue di Enrico il Grande ancora fumava quando il parlamento di Parigi emise una sentenza che stabiliva l’indipendenza della corona come una legge fondamentale. ll cardinale Du perron, che ebbe la sua porpora grazie a Enrico il Grande, nell’assemblea degli stati del 1614 si levò contro la sentenza del parlamento e la fece annullare. Tutti i giornali dell’epoca riportarono le parole di cui si servì Du Perron nella sua arringa: “Se un principe si facesse ariano, disse, sarebbe nostro obbligo deporlo”.

Il cardinale Jacques Du Perron
Il cardinale Jacques Du Perron
No di certo, signor cardinale. Assumiamo pure la vostra supposizione chimerica che uno dei nostri re, avendo letto la storia dei concili e dei padri, colpito d’altra parte da queste parole: “Mio padre è più grande di me”, prendendole troppo alla lettera e soppesando il concilio di Nicea e il concilio di Costantinopoli, si dichiarasse a favore di Eusebio di Nicomedia: non obbedirei di meno al mio sovrano, non mi riterrei meno legato al giuramento che gli ho fatto; e se voi osaste insorgere contro di lui e io fossi uno dei vostri giudici, vi dichiarerei colpevole di lesa maestà.

Du Perron spinse oltre la disputa, e io la sintetizzo. Non è questo il luogo per approfondire queste chimere rivoltanti; mi limiterò a dire, con tutti i cittadini, che non è per il fatto che Enrico IV era stato consacrato a Chartres che gli si doveva obbedienza, ma perché l’incontestabile diritto di nascita conferiva la corona a questo principe, che la meritava per via del suo coraggio e per la sua bontà.

Che sia dunque concesso dire che, per il medesimo diritto, ogni cittadino deve ereditare dei beni dal padre, e che non si merita proprio di esserne privato e di essere mandato alla forca perché sarà dell’opinione di Ratrammo invece che di Pascasio Radberto, o di Berengario invece che di Scoto.

È noto che tutti i nostri dogmi non sono sempre stati spiegati chiaramente e ammessi universalmente nella nostra Chiesa. Poiché Gesù Cristo non ci aveva detto come procedeva lo Spirito Santo, la Chiesa romana credette a lungo, insieme alla Chiesa greca, che procedesse solo dal Padre: solo alla fine essa aggiunse che procedeva anche dal Figlio. Io mi chiede se, all’indomani di questa decisione, un cittadino che si fosse attenuto alla professione di fede della sera precedente sarebbe stato meritevole di morte. La crudeltà, l’ingiustizia, sarebbero meno grandi se si punissero oggi quelli che la pensano come si pensava una volta? Ai tempi di Onorio I, erano colpevoli quelli che credevano che Gesù non avesse due nature?

Non è passato tanto tempo da quando è stata istituita l’immacolata concezione: i domenicani non ci credevano ancora. In quale momento i domenicani cominceranno a meritare delle pene in questo mondo e nell’altro?

Se dobbiamo imparare da qualcuno come ci dobbiamo comportare nelle nostre interminabili dispute, è sicuramente dagli apostoli e dagli evangelisti. C’è di che scatenare uno scisma violento tra San Paolo e San Pietro. Nella sua lettera ai Galati, Paolo dice espressamente che si oppose a Pietro perché Pietro era da biasimare perché usava la dissimulazione come Barnaba, poiché essi mangiavano coi gentili prima dell’arrivo di Giacomo e poi si ritirarono in segreto e si separarono dai gentili per paura di offendere i circoncisi. “Vedo, aggiunge, che non seguivano la retta via del Vangelo; io dico a Pietro: ‘Se tu, ebreo, vivi come i pagani e non come gli ebrei, perché obblighi i pagani a farsi ebrei?'”.

El Greco, I Santi Apostoli Pietro e Paolo
El Greco, I Santi Apostoli Pietro e Paolo

Era un soggetto di acceso dibattito. Si trattava di capire se i nuovi cristiani si fecero o non si fecero ebrei. In quel periodo San Paolo andò anche a offrire sacrifici al tempio di Gerusalemme. È noto che i primi quindici vescovi di Gerusalemme furono ebrei circoncisi che osservarono il sabato e si astennero dai cibi proibiti. Un vescovo spagnolo o portoghese che si facesse circoncidere e osservasse il sabato sarebbe condannato al rogo in un autodafé. Nonostante ciò, la quiete non fu turbata da questa fondamentale questione né tra gli apostoli né tra i primi cristiani.

Se gli evangelisti fossero stati simili agli scrittori moderni, avrebbero un campo ben vasto per combattere gli uni contro gli altri. San Matteo conta ventotto generazioni tra Davide e Gesù; San Luca ne conta quarantuno, e queste generazioni sono completamente diverse. Tuttavia non vediamo alcun dissenso nascere tra i discepoli a proposito di queste contraddizioni apparenti, molto ben appianate da vari Padri della Chiesa. La carità non fu mai ferita, la pace fu tutelata. Quale lezione più grande del tollerarci nelle nostre dispute e dell’umiliarci in tutte quelle questioni che non comprendiamo!

Nella sua Epistola ad alcuni ebrei di Roma convertiti al cristianesimo, San Paolo impiega tutta la fine del terzo capito a dire che solo la fede dona la gloria e che le opere non giustificano nessuno. San Giacomo, al contrario, nella sua Lettera alle dodici tribù d’Israele sparse su tutta la terra, capito II, non smette di dire che non c’è salvezza senza le opere. Ecco la questione che ha separato noi in due grandi professioni, e che invece non divise gli apostoli.

Se la persecuzione verso coloro con cui noi disputiamo fosse una santa azione, bisogna ammettere che colui che avesse fatto uccidere più eretici sarebbe il più grande santo del paradiso. Che figura ci farebbe un uomo che si sarebbe limitato a spogliare i suoi fratelli e a gettarli in prigione, paragonato al fervore che ne avesse massacrati a centinaia il giorno di San Bartolomeo? Ecco la prova.

Il successore di San Pietro e il suo concistoro non possono sbagliare; essi approvarono, celebrarono e consacrarono l’azione della notte di San Bartolomeo: dunque questa azione era santa; e dunque, tra due assassini di uguale pietà, quello che avesse sventrato ventiquattro donne gravide deve essere glorificato il doppio di quello che ne avesse sventrate solo dodici. Per lo stesso motivo, i fanatici delle Cevenne dovevano credere che la loro gloria sarebbe aumentata in proporzione al numero di donne, preti e religiosi cattolici che avessero sgozzato. Sono ben strani titoli per la gloria eterna.

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NOTE:

  1.  ^  Si veda l’eccellente lettera di Locke sulla tolleranza.
  2.  ^ Il gesuita Busembaum, commentato dal gesuita Lacroix, dice che ‘è permesso uccidere un principe scomunicato dal papa, in qualsiasi paese si trovi questo principe, perché l’universo appartiene al papa e colui che accetta questa missione fa un’opera di carità”. È questa proposta, inventata nelle piccole case dell’inferno, che ha più di tutte sollevato tutta la Francia contro i gesuiti. Allora più che mai fu loro rimproverato quel dogma, così spesso insegnato da loro e così spesso disatteso. Hanno creduto di giustificarsi mostrando pressapoco le stesse risoluzioni in San Tommaso e in vari giacobini (si veda, se possibile, la Lettera di un uomo di mondo a un teologo, su San Tommaso; è un opuscolo di gesuiti, del 1762). In effetti, San Tommaso d’Aquino, dottore angelico, interprete della volontà divina (sono i suoi titoli) azzarda che un principe apostata perde il suo diritto alla corona e che non gli si deve più obbedire; che la Chiesa può punirlo con la morte (libro II, parte 2, quest. 12); che l’imperatore Giuliano non è stato tollerato se non perché era il più forte (libro II, parte 2, quest. 12); che per diritto si devono uccidere tutti gli eretici (libro II, parte 2, quest. 11 e 12); che quelli che liberano il popolo da un principe che governa tirannicamente sono molto lodevoli, ecc. ecc. Nutriamo molto rispetto per l’angelo della Scolastica; ma se, al tempo di Jacques Clément, suo confratello, e del fogliante Ravaillac, fosse arrivato lui in Francia a sostenere queste proposte, come sarebbe stato trattato l’angelo della Scolastica?Bisogna ammettere che Jean Gerson, cancelliere dell’Università, si spinse ancora più in là di San Tommaso, e il cordigliere Jean Petit ancora più in là di Gerson. Svariati cordiglieri sostennero le tesi orribili di Jean Petit.
    Bisogna ammettere che questa dottrina diabolica del regicidio deriva unicamente dalla folle idea, condivisa a lungo da quasi tutti i monaci, che il papa è un dio in terra che può disporre a suo piacimento del trono e della vita dei re. In questo noi siamo stati molto al di sotto di quei Tartari che credono il grande lama immortale: egli distribuisce loro i suoi escrementi; essi fanno essiccare queste reliquie, le incastonano e le baciano devotamente. Per quanto mi riguarda, ammetto che preferirei, per il bene della pace, portare al collo delle reliquie come quelle che credere che il papa abbia il minimo diritto sul potere temporale dei suoi re, o anche sul mio, qualunque cosa potesse succedere.