Capitolo XIII

Estrema tolleranza degli Ebrei

E così, dunque, sotto Mosè, i giudici, i re, voi vedrete sempre degli esempi di tolleranza. C’è ben di più[53]: Mosè disse più volte che “Dio punisce i padri attraverso i figli fino alla quarta generazione”; questa minaccia era necessaria a un popolo a cui Dio non aveva rivelato né l’immortalità dell’anima né le pene e le ricompense nell’altra vita. Queste verità non gli furono annunciate né nel Decalogo né in alcuna legge del Levitico o del Deuteronomio. Erano i dogmi dei persi, dei babilonesi, degli egiziani, dei greci, dei cretesi; ma non costituivano affatto la religione degli ebrei. Mosè non disse: “Onora tuo padre e tua madre, se vuoi andare in Cielo”; ma “Onora tuo padre e tua madre per vivere a lungo sulla terra”. Li minaccia soltanto di mali fisici[54], scabbia secca, scabbia purulenta, ulcere maligne nelle ginocchia e nel grasso delle gambe, di essere soggetti all’infedeltà delle loro mogli, di prendere in prestito a usura dagli stranieri e di non poter prestare a usura; di morire di fame e di essere costretti a mangiare i loro figli; ma non dice loro mai che le loro anime immortali subiranno dei tormenti dopo la morte o che gusteranno delle gioie. Dio, che conduceva lui stesso il suo popolo, lo puniva o ricompensava subito dopo le sue buone o cattive azioni. Tutto era temporale, ed è una verità di cui Warburton abusa per dimostrare che la legge degli ebrei era divina[55]: perché essendo Dio stesso il loro re che rendeva giustizia subito dopo la trasgressione o l’obbedienza, non aveva bisogno di rivelare loro una dottrina che teneva in serbo per un tempo in cui non avrebbe più governato il suo popolo. Coloro che, per ignoranza, pretendono che Mosè insegnasse l’immortalità dell’anima, tolgono al Nuovo Testamento uno dei suoi più grandi vantaggi sull’Antico Testamento. La legge di Mosè continuò ad annunciare costantemente solo castighi materiali fino alla quarta generazione. Tuttavia, malgrado l’enunciato preciso di questa legge, malgrado questa dichiarazione espressa da Dio che punirà fino alla quarta generazione, Ezechiele annuncia tutto il contrario agli ebrei e dice loro[56] che sul figlio non peserà affatto l’iniquità del padre; arriva perfino a far dire a Dio che gli aveva dato[57] “dei precetti che non erano buoni”[58]. Il libro di Ezechiele fu comunque inserito nel canone degli autori ispirati da Dio: è vero che la sinagoga non ne permetteva la lettura prima dei trent’anni, come ci insegna San Girolamo; ma era per paura che i giovani abusassero delle figure troppo ingenue che si trovano nei capitoli XVI e XXIII sul libertinaggio delle due sorelle Oolla e Ooliba. In poche parole, il suo libro fu sempre accolto, malgrado la sua contraddizione formale con Mosè. Infine[59], finché l’immortalità dell’anima fu un dogma acquisito, fatto che probabilmente aveva cominciato ai tempi della cattività babilonese, la setta dei sadducei continuò sempre a credere che non c’erano né pene né ricompense dopo la morte e che la facoltà di sentire e di pensare moriva con noi, come l’energia attiva, la facoltà di camminare e di digerire. Negavano l’esistenza degli angeli. Erano molto più diversi dagli altri ebrei di quanto i protestanti non lo siano dai cattolici; tuttavia dimorarono nella comunità dei loro fratelli: si videro anche dei grandi sacerdoti della loro setta. I farisei credevano alla fatalità[60] e alla metempsicosi[61]. Gli esseni pensavano che le anime dei giusti andassero nelle isole fortunate[62]e quelli dei malvagi in una specie di Tartaro. Non facevano alcun sacrificio; si riunivano tra loro in una sinagoga particolare. In poche parole, se si vuole esaminare da vicino l’ebraismo, ci si stupirà di trovarvi la più grande tolleranza tra gli orrori più barbari. È una contraddizione, è vero; quasi tutti i popoli si sono governati con delle contraddizioni. Felice quello che pratica dei costumi miti quando si hanno delle leggi di sangue!

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NOTE:

  1.  ^   Esodo, cap. XX, v. 5.
  2.  ^  Deuteronomio, XXVIII.
  3.  ^  C’è solamente un brano nelle leggi di Mosè da cui si può ricavare che era a conoscenza dell’opinione diffusissima tra gli Egiziani, che l’anima non muore con il corpo; questo brano è molto importante, si trova nel capitolo XVIII del Deuteronomio; “Non consultate assolutamente gli indovini che fanno predizioni esaminando le nuvole, che incantano i serpenti, che interrogano lo spirito di Pitone, i veggenti, gli indovini che interrogano i morti e chiedono loro la verità”.
    Da questo brano sembra che se si evocassero le anime dei morti, questo cosiddetto sortilegio supporrebbe la permanenza delle anime. Può anche essere che i maghi di cui parla Mosè non fossero che grossolani imbroglioni, che non avessero un’idea precisa del sortilegio che credevano di operare. Facevano credere che obbligavano i morti a parlare, che per magia li rimettevano nello stato in cui questi corpi erano stati da vivi, senza nemmeno considerare se dalle loro operazioni ridicole si poteva o meno ricavare il dogma dell’immortalità dell’anima. Gli stregoni non sono mai stati filosofi, sono sempre stati dei giocolieri che giocavano davanti agli imbecilli.
    Si può inoltre notare che è molto strano che la parola ‘Pitone’ si trovi nel Deuteronomio, molto tempo prima che questa parola greca potesse essere conosciuta dagli ebrei; inoltre il termine ‘Pitone’ non è affatto presente in ebraico, lingua di cui non abbiamo alcuna traduzione esatta.
    Questa lingua ha delle difficoltà insormontabili: è un insieme di fenicio, egiziano, siriano e arabo; e questo antico miscuglio oggi è molto alterato. L’ebraico non ebbe mai più di due tempi verbali, il presente e il futuro: bisogna intuire gli altri tempi dal senso. Le vocali differenti erano spesso espresse con gli stessi caratteri; o piuttosto non esprimevano le vocali, e gli ideatori dei punti non hanno fatto altro che aumentare la difficoltà. Ogni avverbio ha venti significati diversi. La stessa parola può significare anche il suo contrario.
    A questo problema si sommano la secchezza e la povertà del linguaggio: gli ebrei, privati delle arti, non potevano esprimere quello che non conoscevano. In poche parole, l’ebreo sta al greco come la lingua di un contadino sta a quella di un accademico.
  4.  ^  Ezechiele, cap. XVIII, v, 20.
  5.  ^ Ibid., cap. XX, v. 25.
  6.  ^  L’opinione di Ezechiele prevalse infine nella sinagoga; ma ci furono degli ebrei che, credendo alle pene eterne, credevano anche che Dio castigasse i figli per le iniquità dei padri: oggi essi sono puniti fino alla cinquantesima generazione e devono anche temere le pene eterne. Ci si chiede come mai i discendenti degli ebrei, che non erano complici della morte di Gesù Cristo, quelli che essendo a Gerusalemme non vi presero alcuna parte, e quelli che erano sparsi per il resto del mondo, possano essere puniti temporalmente attraverso i loro figli, innocenti tanto quanto i loro padri. Questa punizione temporale, o piuttosto questo modo di vivere diverso dagli altri popoli, e di fare commercio senza avere una patria, può non essere affatto considerato come un castigo a paragone delle pene eterne che si attirano a causa della loro incredulità e che possono evitare con una conversione sincera.
  7.  ^ Coloro che hanno voluto trovare nel Pentateuco la dottrina dell’inferno e del paradiso, come noi li concepiamo, si sono clamorosamente sbagliati: il loro sbaglio non si fonda altro che su un banale equivoco lessicale; dal momento che la Vulgata ha tradotto la parola ebrea ‘sheol‘, ‘fossa’, con infernum, e che la parola latina infernum è stata tradotta in francese con enfer, ci si è serviti di questo equivoco per far credere che gli antichi ebrei avevano la nozione dell’Ade e del Tartaro dei Greci, che le altre nazioni avevano precedentemente conosciuto con altri nomi.
    Nel capitolo XVI dei Numeri (31-33) è riportato che la terra aprì la bocca sotto le tende di Coré, Dathan e di Abiron, che li divorò con le loro tende e le loro sostanze, e che furono precipitati nella sepoltura, sotto terra, ancora vivi: in questo passaggio non si fa menzione né delle anime di questi tre ebrei, né dei tormenti dell’inferno, né della punizione eterna.
    È strano che nel Dizionario enciclopedico alla parola ‘inferno’ sia scritto che gli antichi ebrei ne hanno sperimentato l’esistenza; se così fosse stato, nel Pentateuco ci sarebbe una contraddizione insanabile. Come potrebbe essere che Mosè abbia parlato in un solo brano isolato delle pene dopo la morte, e ce non ne abbia parlato affatto nelle sue leggi? Si cita il trentaduesimo capitolo del Deuteronomio (versetti 21-24), ma lo si tronca; eccolo per intero: “Mi hanno provocato in colui che non era Dio, e mi hanno irritato nella loro vanità; e io li provocherò in quello che non è un popolo, e li irriterò nella nazione insensata. E si è acceso un fuoco nel mio furore, e brucerà fino al fondo della terra; divorerà la terra fino al suo germe, e brucerà le fondamenta delle montagne; e io li colmero di mali, e riempirò i miei dardi su di loro; saranno consumati dalla fame, gli uccelli li divoreranno con morsi amari; imprimerò su di loro i denti delle bestie che strisciano con furore sulla terra, e dei serpenti”.
    C’è il minimo rapporto tra queste espressioni e la nozione di punizione infernale come la intendiamo noi? Pare, al contrario, che queste parole non siano riportate che per rendere evidente che il nostro inferno non era conosciuto dagli antichi ebrei. L’autore di questo articolo cita anche il passo di Giobbe, al cap. XXIV (15-19). “L’occhio dell’adultero osserva l’oscurità dicendo: ‘L’occhio non mi vedrà’, e coprirà il suo viso; penetra le case nelle tenebre, come aveva detto durante il giorno, e hanno ignorato la luce; se l’aurora appare improvvisamente, la credono l’ombra della morte, e così camminano nelle tenebre come nella luce; è leggero sulla superficie dell’acqua; che la sua porzione di campo sia maledetta sulla terra, che non cammini per la via della vigna, che passi dalla acque di neve a un calore grandissimo, e hanno peccato fino alla tomba”; o anche “la tomba ha dissipato quelli che peccano”, o ancora (secondo i Settanta) “il loro peccato resterà nella memoria”.
    Riporto l’intero passaggio, e letteralmente, altrimenti è sempre impossibile farsene una vera idea.
    Vi prego, c’è la minima parola da cui si possa concludere che Mosè aveva insegnato agli ebrei la dottrina chiara e semplice delle pene e delle ricompense dopo la morte?
    Il libro di Giobbe non ha alcun rapporto con le leggi di Mosè. Per giunta, è molto probabile che Giobbe non fosse affatto ebreo; è l’opinione di San Girolamno nelle sue questioni ebraiche sulla Genesi. La parola ‘Satana’, che si trova in Giobbe (I, 6, 12), non era per niente conosciuta dagli ebrei, e non la troverete mai nel Pentateuco. Gli ebrei impararono questa parola solo in Caldea , così come i nomi di Gabriele e di Raffaele, sconosciuti prima della loro schiavitù a Babilonia. Quindi Giobbe è qui citato molto a sproposito.
    Si riporta anche l’ultimo capitolo di Isaia (23, 24): “E di mese in mese, e di sabato in sabato, tuti verrano ad adorarmi, dice il Signore; e usciranno, e vedranno nella discarica i cadaveri di quelli che hanno prevaricato; il loro verme non morirà, il loro fuoco non si spegnerà, e saranno esposti alla vista di tutti fino alla sazietà”. Certo, se sono gettati nella discarica, se sono esposti alla vista dei passanti fino alla sazietà, se sono mangiati dai vermi, ciò non significa che Mosè insegno agli ebrei il dogma dell’immortalità dell’anima; e queste parole, “Il fuoco non si spegnerà”, non significano che dei cadaveri che sono esposti alla vista della gente subiscano le pene eterne dell’inferno.
    Com’è possibile citare un brano di Isaia per provare che gli ebrei del tempo di Mosè avevano ricevuto il dogma dell’immortalità dell’anima? Isaia profetizzava, secondo il calcolo ebraico, l’anno del mondo 3380. Mosè visse verso l’anno 2500; sono passati otto secoli tra l’uno e l’altro. È un insulto al senso comune, o uno burla bella e buona, abusare in questo modo della facoltà di fare citazione e di pretendere di dimostrare che un autore ha avuto una certo opinione attraverso il brano di un autore venuto ottocento anni dopo, e che non ha affatto parlato di questa opinione. È fuor di dubbio che l’immortalità dell’anima, le pene e le ricompense dopo la morte sono annunciate, riconosciute, constatate nel Nuovo Testamento, ed è fuor di dubbio che esse non si trovano in alcun punto del Pentateuco; ed è ciò che il grande Arnauld afferma chiaramente e con forza nella sua apologia di Port-Royal.
    Gli ebrei, quando successivamente credettero all’immortalità dell’anima, non furono illuminati sulla sua spiritualità;essi pensarono, pressapoco come tutti gli altri popoli, che l’anima fosse qualcosa di slegato, una sostanza leggera e aerea, che conservava qualche parvenza del corpo che aveva animato; sono quelle che si chiamano ‘le ombre’, ‘i mani’ dei corpi. Questa opinione fu quella di diversi Padri della Chiesa. Tertulliano, nel suo capitolo XXII dell’Anima, si esprime così: “Definimus animam Dei flatu natam, immortalem, corporalem, effigiatam, substantia simplicem. Definiamo l’anima nata dal soffio di Dio come immortale, corporea, figurata, semplice nella sua sostanza”.
    Sant’Ireneo dice, nel suo libro II, cap. XXXIV: “Incorporales sunt animae quantum ad comparationem mortalium corporum. Le anime sono incorporee se paragonate ai corpi mortali”, Aggiunge che “Gesù Cristo ha insegnato che le anime conservano l’aspetto del corpo: caracterem corporum in quo adoptantur, ecc. Non si vede che Gesù Cristo abbia mai insegnato questa dottrina, ed è difficile indovinare il senso di ciò che afferma Sant’Ireneo. Sant’Ilario è più formale e più positivo nel suo commento su San Matteo: attribuisce chiaramente una sostanza corporea all’anima: “Corpoream naturae suae substantiam sortiuntur”.
    Sant’Ambrogio, su Abramo, libro II, cap. VIII, sostiene che non ci sia niente di staccato dalla materia, se non la sostanza della Santissima Trinità.
    A questi uomini rispettabili si potrebbe rimproverare di avere una cattiva filosofia; ma c’è da credere che in fondo la loro teologia era molto sana, perché, non conoscendo la natura incomprensibile dell’anima, la pensavano sicuramente immortale e la volevano cristiana.
    Noi sappiamo che l’anima è spirituale, ma non sappiamo assolutamente che cosa sia questo spirito. Noi conosciamo la materia in modo molto imperfetto, e ci è impossibile avere un’idea precisa di ciò che non è materiale. Assai poco istruiti su cià che tocca i nostri sensi, noi non possiamo conoscere niente da noi stessi su ciò che è al di là dei sensi. Noi trasportiamo qualche parola della nostra lingua ordinaria negli abissi della metafisica e della teologia, per farci qualche vaga idea delle cose che noi non possiamo né concepire né esprimere; noi cerchiamo di puntellarci su queste parole per sostenere, se possibile, il nostro debole intendimento in queste regioni inesplorate.
    Allo stesso modo ci serviamo della parola ‘spirito’, che corrisponde a ‘soffio’ e ‘vento’, per esprimere qualcosa che non è materia; e a questa parola ‘soffio’, ‘vento’ o ‘spirito’, poiché ci riporta nostro malgrado ad una sostanza slegata e leggera, ritagliamo ancora ciò che ci è possibile per arrivare a concepire la spiritualità pura; ma noi non arriveremo mai ad una nozione distinta: noi non sappiamo nemmeno quel che diciamo quando pronuniciamo la parola ‘sostanza’; essa significa letteralmente ‘ciò che sta sotto’, e proprio per questo ci appare incomprensibile: perché, in effetti, che cos’è che sta sotto? La conoscenza dei segreti di Dio non è appannaggio di questa vita. Immersi qui in tenebre profonde, noi ci scontriamo gli uni contro gli altri e ci colpiamo a caso in mezzo a questa notte, senza sapere di preciso perché stiamo combattendo.
    Se si vuole riflettere attentamente su tutto questo, non c’è uomo ragionevole che non concluda che noi dobbiamo avere indulgenza per le opinioni degli altri, e meritare indulgenza.
    Tutte queste osservazioni non sono per niente estranee al nocciolo della questione, che consiste nel determinare se gli uomini debbano tollerarsi: perché se esse provano quanto si è caduti in errore da una parte e dall’altra in tutti i tempi, esse provano anche che gli uomini hanno dovuto, in ogni tempo, trattarsi con indulgenza.
  8.  ^ Il dogma della fatalità è antico e universale: lo si trova continuamente in Omero. Giove vorrebbe salvare la vita a suo figlio Sarpedonte; ma il destino lo ha condannato a morte; Giove non può che obbedire. Presso i filosofi, il destino era o la concatenazione necessaria delle cause e degli effetti necessariamente prodotti dalla natura, o questa stessa concatenazione ordinata dalla Provvidenza: il che è molto più ragionevole. Tutto il sistema della fatalità è contenuto in questo verso di Anneo Seneca (Epistola CVII):
    Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.
    Si è sempre convenuto che Dio abbia governato l’universo con leggi eterne, universali, immutabili: questa verità fu la fonte di tutte quelle dispute inintelligibili sulla libertà, perché la libertà non è mai stata definita, finché non arrivò il saggio Locke; egli ha dimostrato che la libertà è il potere di agire. Dio conferisce questo potere; e l’uomo, agendo liberamente secondo gli ordini eterni di Dio, è una delle ruote della grande macchina del mondo. Tutta l’Antichità disputò sulla libertà, ma nessuno venne mai perseguitato su questo argomento fino ai nostri giorni. Che orrore assurdo aver imprigionato, esiliato per questa disputa, un Arnauld, un Sacy, un Nicole, e tanti altri che sono stati la luce della Francia!
  9.  ^  Il romanzo teologico della metempsicosi viene dall’India, da cui abbiamo preso molte più favole di quel che non si creda comunemente. Questo dogma è spiegato nel mirabile quindicesimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. È stato ricevuto quasi su tutta la terra; è stato sempre combattuto; ma non si è mai visto nessun sacerdote dell’Antichità che abbia mandato un ordine di carcerazione a un seguace di Pitagora.
  10. ^  Né gli antichi ebrei, né gli egiziani, né i greci loro contemporanei credevano che l’anima dell’uomo andasse in cielo dopo la morte. Gli ebrei pensavano che la luna e il sole fossero qualche lega sopra di noi, nello stesso cerchio, e che il firmamento fosse una volta spessa e solida che sosteneva il peso delle acque, le quali fuoriuscivano da qualche apertura. Il palazzo degli dei, presso gli antichi greci, era sul monte Olimpo. La dimora degli eroi dopo la morte era, al tempo di Omero, in un’isola al di là dell’Oceano, e questa era l’opinione degli esseni.
    A partire da Omero, si assegnarono dei pianeti agli dèi, ma gli uomini non avevano più motivi di mettere un dio sulla luna di quanti ne avessero gli abitanti della luna di mettere un dio sul pianeta Terra. Giunone e Iris non ebbero altri palazzi che le nuvole; qui non sapevano dove posare i piedi. Per i Sabei ogni dio aveva la sua stella; ma, poiché una stella è un sole, non c’è modo di abitare lì se non essere della stessa natura del fuoco. E’ dunque una questione molto inutile chiedersi che cosa pensassero gli antichi del cielo: la miglior risposta è che non ci pensavano.