Capitolo III

Rapido quadro della Riforma del XVI secolo

Allorché, con il rinascimento delle lettere, gli spiriti cominciarono ad illuminarsi, ci si lamentò universalmente degli abusi; tutti ammettono che questa lagnanza era legittima.

Il papa Alessandro VI aveva comprato pubblicamente la tiara, e i suoi cinque bastardi se ne spartivano i vantaggi. Suo figlio, il cardinale duca di Borgia, fece morire, d’accordo col papa suo padre, i Vitelli, gli Urbino, i Gravina, gli Oliveretto, e cent’altri signori, per carpire i loro domini. Giulio II, animato dallo stesso spirito, scomunicò Luigi XII, diede il suo regno al primo occupante; e lui stesso, con l’elmo in testa e la corazza addosso, mise a ferro e fuoco una parte dell’Italia. Leone X, per pagare i suoi piaceri, fece vendita di indulgenze come si vendono le derrate in un pubblico mercato. Coloro che insorsero contro tali azioni da briganti non avevano almeno alcun torto nella morale. Vediamo se ne avevano contro di noi nella politica.

Dicevano che poiché Gesù Cristo non aveva mai preteso né annate, né riserve, né venduto dispense per questo mondo o indulgenze per l’altro, si poteva essere dispensati dal pagare a un principe straniero il prezzo di tutte queste cose. Quand’anche le annate, i processi alla corte di Roma e le dispense che permangono ancora oggi, non ci costassero che cinquecentomila franchi all’anno, è chiaro che abbiamo pagato dai tempi di Francesco I, in duecentocinquant’anni, centoventicinque milioni; e tenendo conto dei differenti prezzi del marco d’argento, questa somma equivale a circa duecentocinquanta milioni dei nostri giorni. Si può dunque riconoscere senza blasfemia che gli eretici, proponendo l’abolizione di queste strane tasse di cui i posteri si meraviglieranno, non facevano un gran male al regno, e che erano piuttosto dei buoni matematici che dei cattivi soggetti. Aggiungiamo che essi erano i soli che sapessero la lingua greca e che conoscessero la storia antica. Non nascondiamo che, malgrado i loro sbagli, dobbiamo loro lo sviluppo dello spirito umano, a lungo inselvatichito nella più fitta barbarie.

Ma poiché negavano l’esistenza del purgatorio, di cui non bisogna dubitare (e che del resto fruttava bene ai monaci); poiché non veneravano delle reliquie che bisogna venerare (ma che fruttavano ancora meglio); infine, poiché attaccavano dei dogmi molto rispettati[7], come prima cosa si rispose loro mettendoli al rogo. Il re, che li proteggeva e li assoldava in Germania, entrò a Parigi in testa ad una processione dopo la quale furono giustiziati molti di questi poveretti; ed ecco come avvenne questa esecuzione. Furono sospesi all’estremità di una lunga trave che compiva delle oscillazioni su un albero verticale; un gran fuoco era era acceso sotto di loro; li si faceva immergere e risollevare in modo alternato: provavano i tormenti della morte in maniera graduale, affinché spirassero nel più lungo e spaventoso supplizio che abbia mai inventato la barbarie.

Poco tempo prima della morte di Francesco I, alcuni membri del parlamento di Provenza, istigati da alcuni ecclesiastici contro gli abitanti di Mérindol e Cabrières, chiesero al re delle truppe per essere d’aiuto nell’esecuzione di diciannove persone di questo paese che loro avevano condannato; ne fecero sgozzare seimila, senza riguardo né per il sesso, né per la vecchiaia, né per l’infanzia; ridussero trenta borghi in cenere. Queste genti, fino ad allora sconosciute, avevano probabilmente il torto di essere nate valdesi; era la loro unica colpa. Da trecento anni dimoravano su dei deserti e delle montagne che loro avevano reso fertili grazie ad un lavoro incredibile. La loro vita tranquilla di pastori rievocava l’innocenza attribuita alle prime ere dell’umanità. Le città vicine erano da loro conosciute soltanto per via del commercio di frutti che vi andavano a vendere; essi ignoravano i processi e la guerra; non si difesero; furono sgozzati come animali che scappano quando li si uccide in un recinto[8].

Massacro di Mérindol, incisione di Gustave Doré
Massacro di Mérindol, incisione di Gustave Doré

Dopo la morte di Francesco I, principe tuttavia più noto per le sue galanterie e disgrazie che per le sue crudeltà, il supplizio di mille eretici -soprattutto quello del consigliere al parlamento Dubourg- e infine il massacro di Vassy armarono i perseguitati, la cui setta si era moltiplicata al chiarore dei roghi e sotto il ferro dei boia; la rabbia si susseguì alla pazienza; essi imitarono le crudeltà dei loro nemici: nove guerre civili riempirono la Francia di carneficine; una pace più funesta della guerra arrecò la notte di San Bartolomeo, di cui non c’era esempio alcuno negli annali dei delitti.

La lega assassinò Enrico III e Enrico IV per mano di un frate domenicano e di un mostro che era stato frate fogliante. C’è gente che asserisce che l’umanità, l’indulgenza e la libertà di coscienza siano delle cose orribili; ma, in buona fede, avrebbero esse prodotto delle simili calamità?

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NOTE:

  1.  ^  Riproponevano l’idea di Bérenger sull’Eucarestia; negavano che un corpo potesse entrare in centomila luoghi diversi, nonostante l’onnipotenza divina; negavano che gli attributi potessero sussistere senza soggetto; credevano che fosse assolutamente impossibile che ciò che risulta pane e vino alla vista, al gusto, allo stomaco, fosse annientato nel momento stesso che esiste; sostenevano tutti questi errori, già al tempo condannati in Bérenger. Si basavano su vari brani dei primi Padri della Chiesa, e soprattutto su San Giustino, che dice espressamente nel suo dialogo contro Trifone: “L’offerta della fine farina…. è l’immagine dell’eucarestia che Gesù Cristo ci ordina di fare in memoria della sua Passione”. (Pagina 119, Edizione di Londra, 1719, in-8°).
    Si rifacevano a tutto quello che nei primi secoli si era detto contro il culto delle reliquie; citavano queste parole di Vigilanzio: “È necessario che voi rispettiate o perfino che adoriate della vile polvere? Le anime dei martiri animano ancora le loro ceneri? I costumi degli idolatri si sono introdotti nella Chiesa: si comincia ad accendere delle fiaccolate in pieno mezzogiorno. Noi possiamo, finché siamo in vita, pregare gli uni per gli altri; ma, dopo la morte, a cosa servono queste preghiere?”
    Ma non dicevano come San Girolamo si fosse levato contro queste parole di Vigilanzio. Infine volevano tutti rifarsi ai tempi apostolici e non volevano ammettere che, poiché la Chiesa si era estesa e fortificata, era per forza necessario estendere e fortificare la sua disciplina: essi condannavano le ricchezze, che sembravano tuttavia necessarie per sostenere la maestosità del culto.
  2.  ^ Il rispettabile e veritiero presidente de Thou parla così di questi uomini così innocenti e così sfortunati: “Homines esse qui trecentis circiter abhinc annis asperum et incultum solum vectigale a dominis acceperint, quod improbo labore et assiduo cultu frugum ferax et aptum pecori reddiderint; patientissimos eos laboris et inediae, a litibus abhorrentes, erga egenos munificos, tributa principi et sua jura dominis sedulo et summa fide pendere; Dei cultum assiduis precibus et morum innocentia prae se ferre, caeterum raro divorum templa adire, nisi si quando ad vicina suis finibus oppida mercandi aut negotiorum causa divertant; quo si quandoque pedem inferant, non Dei divorumque statuis advolvi, nec oereos eis aut donoria ulla ponere; non sacerdotes ab eis rogari ut pro se aut propinquorum manibus rem divinam faciant: non cruce frontem insignire uti aliorum moris est; cum coelum intonat, non se lustrali aqua aspergere, sed sublatis in coelum oculis Dei opem implorare; non religionis ergo peregre proficisci, non per vias ante crucium simulacra caput aperire; sacra alio ritu et populari lingua celebrare; non denique pontifici aut episcopis honorem deferre, sed quosdam e suo numero delectos pro antistitibus et doctoribus habere. Haec uti ad Franciscum relata VI id. feb., anni, etc.” (THUANI, Hist., lib. VI.)
    Mme de Cental -alla quale apparteneva una parte delle terre devastate, e sulle quali non si vedevano che i cadaveri dei suoi abitanti- chiese giustizia al re Enrico II, che la mandò al parlamento di Parigi. L’avvocato generale di Provenza, che si chiamava Guérin, principale autore dei massacri, fu condannato solo a perdere la testa. De Thou disse che subiva da solo la pena degli altri colpevoli, quod aulicorum favore destitueretur, perché non aveva amici a corte.